L’«Orestea» di Anagoor, ovvero la parola che incanta il nulla

Un momento dell'«Orestea» di Anagoor, che ha aperto la Biennale Teatro (le foto dello spettacolo sono di Giulio Favotto)

Un momento dell’«Orestea» di Anagoor, che ha aperto la Biennale Teatro
(le foto dello spettacolo sono di Giulio Favotto)

VENEZIA – Non c’è che dire. Anagoor, uno dei gruppi più interessanti e importanti dell’odierno panorama del teatro di ricerca, appartiene alla specie rarissima, e ormai in via di estinzione, dei teatranti intelligenti, dei teatranti colti, dei teatranti che, figuriamoci, si propongono di far pensare. E ne costituisce un’ulteriore dimostrazione «Orestea – Agamennone, Schiavi, Conversio», lo spettacolo con cui, da vincitore del Leone d’Argento, ha aperto la quarantaseiesima edizione del Festival Internazionale del Teatro, promossa dalla Biennale e diretta da Antonio Latella.
Basterebbe considerare, al riguardo, la premessa che il gruppo pubblica nel catalogo del Festival: «Oggi a noi mancano categorie in grado di farci percepire la scossa del sacro con cui il cittadino ateniese assisteva alle rappresentazioni tragiche. Anagoor affronta l’Orestea di Eschilo a partire da questa distanza incommensurabile». E circa l’orizzonte concettuale dello spettacolo si aggiunge: «Sullo sfondo il discorso ontologico che è l’impalcatura del pensiero di tutto l’Occidente, la sua intima contraddizione e la sua pericolosità; in primo piano la fiducia in una parola persuasiva capace di incanto, che dissolva come nebbia al sole, o domi dolcemente, il dolore che proviene dalla fede assoluta che l’essere finisca nel niente».
Altro che la disinvoltura, figlia dell’ignoranza, con cui tanti (troppi) registi mettono in scena il capolavoro di Eschilo, equiparandolo, sostanzialmente, a una sorta di romanzo d’appendice  ante litteram o, peggio, a una fiction stile «Gomorra». Mentre, ad inverare la profondità e la complessità dell’approccio di Anagoor, sta, tanto per cominciare, una straordinaria coerenza fra le premesse citate e il testo dello spettacolo.
Le note riguardanti «Orestea – Agamennone, Schiavi, Conversio» si aprono, nel catalogo del Festival, con la traduzione, scritta a mano, di una pagina del taccuino di Heinrich Schliemann contenente la descrizione della maschera d’oro cosiddetta di Agamennone scoperta nel novembre del 1876 durante gli scavi archeologici effettuati nell’area di Micene. E, nel solco di una circolarità significante (che, ovviamente, è anche e soprattutto quella del mito), la pagina del taccuino di Schliemann si congiunge con il passo del testo di Anagoor che, essendo quasi l’ultimo, risulta per ciò stesso collocato in una posizione fortemente icastica.
Il passo in questione è il seguente: «Le immagini trascorrono sì verso il vuoto, ma la parola le custodisce, per sempre: al di là della memoria, al di là del tempo, brilla in eterno il riflesso di età sprofondate, di imperi scomparsi, di eventi cancellati, del bene voluto. Dire che cosa sia questo qualcosa, non è in potere della parola. Nondimeno la parola, quella dei poeti, si nutre di questo misterioso arcano. Lo esprime. Ne corteggia il mostrarsi. Se così non fosse, non potrebbe succedere, come invece accade, che il nulla si lasci incantare dalla parola. Quel silenzio altissimo e invincibile in realtà è abitato dalla parola, tant’è vero che essa trova il modo di farlo riverberare. Ma come dirla, questa parola di Giustizia? Dove trovarla, se è nascosta sottoterra?».

Un altro momento di «Orestea - Agamennone, Schiavi, Conversio»

Un altro momento di «Orestea – Agamennone, Schiavi, Conversio»

Ecco il punto, allora. Nello spettacolo di Anagoor il testo di Eschilo viene equiparato, esattamente, alla maschera d’oro cosiddetta di Agamennone venuta fuori dalle viscere della terra di Micene. E inizialmente lasciato nella sua integralità dalla traduzione di Patrizia Vercesi e Simone Derai, a mano a mano, poi, diventa – come accade ad ogni testo in ogni spettacolo del gruppo di Castelfranco Veneto – nient’altro che un’isola fra tante in un «arcipelago» (è il termine coniato da Anagoor) di suggestioni filosofiche, letterarie e poetiche altre. Giacché, sintende, per tentar di decifrare la maschera cosiddetta di Agamennone non resta che convogliare su quell’oro raggi di luce provenienti dalle fonti e dai punti più diversi.
Così, ed è un altro esempio della coerenza interna e della circolarità significante di cui dicevo a proposito del testo complessivo di questo spettacolo, il passo sulla parola che incanta il nulla viene annunciato, nel primo episodio, da alcuni versi dei «Kindertotenlieder», i «Canti per i bambini morti» di Mahler e Rückert: «Ora il sole osa sorgere e splendere ancora, / come se una sciagura nella notte non fosse avvenuta. / La sciagura è avvenuta: certo, a me sola è toccata, / e il sole splende ovunque e per tutti gli altri, là fuori. / Non devi in te la notte rinchiudere, e nasconderla, / ma lasciarla affondare e perdersi nella luce eterna. / Si è spenta nella mia tenda una piccola lucerna, / ma sia gloria alla luce cara e gioiosa del mondo!».
Per la cronaca, oltre a Mahler e Rückert, gli autori dai quali prende spunto Anagoor sono Sergio Quinzio, Emanuele Severino, Sergio Givone, Giacomo Leopardi, Annie Ernaux, Hermann Broch, Virgilio, Hannah Arendt, Guido Mazzoni e, soprattutto, quel Winfried Georg Sebald che, a parere di alcuni, è in assoluto il più grande scrittore del secondo Novecento nel mondo. Pietro Citati ha osservato che «nessuno aveva il suo dono fondamentale: trasformare la vocazione metafisica in scienza naturale e la scienza naturale in vocazione metafisica». E non è per l’appunto questo l’ossimoro che cavalca «Orestea – Agamennone, Schiavi, Conversio»? Non è, voglio dire, il tentativo di conciliare il corpo di noi, uomini d’oggi, e la parola di un testo di venticinque secoli fa?
Dunque – se il passo sulla parola che incanta il nulla è il frutto di una riscrittura in cui confluiscono il pensiero e le parole di Severino, di Givone e persino del discorso di commemorazione pronunciato nel ’47, a guerra finita, sulla tomba del partigiano Primo Visentin, comandante della Brigata Martiri del Grappa col nome di battaglia Masaccio – ancora da Sebald, precisamente da «Le Alpi nel mare», viene ricavato l’ossimoro conclusivo. Parlando della «condizione patologica» delle prefiche e delle «voceratrici» della Corsica ottocentesca, «determinata in pari tempo da un delirio totale e da un estremo autocontrollo», il testo aggiunge che «si distingueva forse solo in misura irrilevante da quella delle sonnambule che, sulle scene dei teatri lirici borghesi, da due secoli cadono preda, sera dopo sera, di parossismi isterici calcolati fin nei minimi dettagli». E, come si vede, torniamo alla circolarità: stavolta sul versante di un impagabile affondo satirico contro il teatro «ufficiale» da romanzo d’appendice o fiction di cui sopra. Ciò che fa il paio con quel che Agamennone ribatte a Clitemnestra: «Hai parlato in modo conforme al tuo ruolo di reggente e amministratrice della casa. Ora, però, ti stai un po’ allargando».
Il Corifeo, infine, viene chiamato Didaskalos, col termine che nell’antica Grecia indicava il maestro. E Simone Derai mi ha spiegato che l’hanno chiamato così «per simpatia. Ci ricordava un maestro di quelli di una scuola elementare di campagna, durante la guerra o subito dopo: vicinanza con i ragazzi e ideali altissimi, missione commovente e destino condivisi con il giovane Pasolini e Primo Visentin, in comune anche una fine violenta che spezza il cuore».
Constatiamo, quindi, che «Orestea – Agamennone, Schiavi, Conversio» è uno spettacolo straordinario anche perché ha la capacità di non praticare l’analisi (e, ripeto, un’analisi raffinatissima) a discapito della mozione degli affetti, e di sentimenti ancorati a una lucida visione civile e politica. E solo qualche esempio faccio, per concludere, circa la caratura tecnica ed espressiva dell’allestimento in sé, garantita dalla regia dello stesso Simone Derai (suoi anche le scene, i costumi, i video girati insieme con Giulio Favotto), dalle musiche di Mauro Martinuz e dalle coreografie di Giorgia Ohanesian Nardin.
Proprio le coreografie, in particolare, offrono uno dei momenti più importanti dello spettacolo. Accade quando, nella penombra, il gruppo degli attori si accanisce in un girare in tondo frenetico e quasi rabbioso, come se fossero impegnati nella disperata ricerca di un personaggio qualsiasi da interpretare, per poi arrestarsi immobili davanti a uno di loro che, dietro un microfono, parla, appunto, dei personaggi che Eschilo ha tirato fuori dalle vertiginose profondità del tempo. E sempre lo scarto fra un mito lontanissimo e il presente traduce il fatto che la vedetta di «Agamennone» sta di guardia, invece che sul tetto, in cima a una pila di casse acustiche.
Però, quella vedetta è investita, mentre parla dentro un microfono, da preziosissimi tagli di luce caravaggeschi. E tanto attiene alla bellezza che, in ogni caso, rinasce perennemente, come, giusto, la parola che non cessa di riemergere da sottoterra per opporsi al crudele annientamento della voce poetica. In tal senso, la sequenza che chiude lo spettacolo risulta addirittura abbagliante: un video mostra, in successione, le statue greche mutile di un museo e la statua greca che Anagoor è andato a scannerizzare ad Olimpia e adesso viene riprodotta con una stampante 3D.
Bravissimi, infine, gl’interpreti: fra i quali vanno citati almeno Marco Ciccullo (Oreste), Sebastiano Filocamo (Agamennone), Monica Tonietto (Clitemnestra), Marco Menegoni (il Corifeo), Gayané Movsisyan (Cassandra) e Benedetto Patruno (Egisto). Semmai, s’impone qualche taglio: lo spettacolo dura quattro ore abbondanti con un intervallo di dieci minuti, il che va bene per il pubblico acculturato e «complice» di un festival, non certo per quello «normale» di un qualsiasi teatro. Ma si può provvedere. E comunque, resta la sostanza pregnante di uno spettacolo di rara forza teorica e di ancor più rara capacità di scavo nella nostra anima.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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