E in punto di morte Dante si pentì d’aver scritto la Commedia

Ermanna Montanari in un momento di «Fedeli d'amore» (foto di Enrico Fedrigoli)

Ermanna Montanari in un momento di «Fedeli d’amore» (foto di Enrico Fedrigoli)

NAPOLI – A vedere «Fedeli d’amore» – lo spettacolo (il testo è di Marco Martinelli) dato dal Teatro delle Albe e da Ravenna Teatro nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia – mi ha spinto, in partenza, il sottotitolo, «Polittico in sette quadri per Dante Alighieri». Ma, poi, mi ha indotto a vedere quello spettacolo soprattutto il fatto che Martinelli ed Ermanna Montanari, qui nel triplice ruolo di coideatrice, coregista (appunto con Martinelli) e interprete, vivono ed operano a Ravenna. E da Ravenna mi giunse un messaggio, per me indimenticabile, di Vittorio Russo.
Vittorio Russo, troppo presto scomparso, è stato l’ultimo autentico maestro dell’Università di Napoli. E fu lui che m’insegnò a capire Dante e così, come più volte ho scritto, a cogliere il brivido di una bellezza perenne.
Ebbene, da Ravenna Vittorio mi mandò, con una dedica assai lusinghiera e affettuosa, le fotocopie dell’intervento che il 7 aprile 1979 aveva svolto nel quadro del ciclo annuale di «Letture classensi» e in cui citava un articolo che avevo scritto per «Paese Sera» in merito a uno strano evento verificatosi a Napoli: per qualche mese, di notte, uno sconosciuto «indiano metropolitano» istoriò con i versi del Paradiso i muri di alcuni dei posti più in vista della città, a cominciare dal muro del porto lungo tutta via Marina.
Vittorio Russo citava quell’articolo a proposito della considerazione finale proposta dal suo intervento ravennate: «Nessuno, credo, oggi può osare sperare di ritrovare Dante solo nei silenzi chiostrali o nella penombra delle biblioteche. Rischierebbe di incontrarlo in qualche stilema di Franco Fortini o nelle ultime pagine di Pier Paolo Pasolini, già intrise di disperazione e di sangue, o nell’attesa confusa di un giovane barbuto, o ancora, come pure è avvenuto, in alcune scritte rosse sui muri delle università e delle strade, e non essere più in grado di riconoscerlo».
Ma non rischiamo di non riconoscerlo, Dante, nello spettacolo del Teatro delle Albe: semplicemente perché Dante – il Dante che conta e col quale, mi si passi il gioco di parole, non smettiamo di fare i conti – in quello spettacolo non c’è. C’è solo il Dante che viene colto, in punto di morte, nella sua cameretta di Ravenna, mentre, insieme con la figlia Antonia, gli fa visita una metaforica nebbia che Martinelli apparenta – dichiaratamente e molto implausibilmente – a quella indotta dal delirio nella mente del poeta.
Per il resto, si nomina di passaggio il «De vulgari eloquentia», si cita qualche parola o verso della Commedia e si accenna, sempre di passaggio, a taluni notissimi eventi che influenzarono la vita di Dante, primo fra tutti lo scontro fra Guelfi e Ghibellini: con il codicillo – ciò che attiene all’ormai insopportabile vizio dei teatranti di tentar di spacciare per attuale tutto quanto mettono in scena – dell’identità stabilita fra l’Italia del Trecento e quella di oggi.
In proposito, la «serva Italia, di dolore ostello» di Dante diventa, per citare solo un passo del testo di Martinelli, che alterna l’italiano e il dialetto romagnolo, «Italia zoppa / che non cambi mai / Italia disunita / Italia lacerata / Italia impantanata / Italia strangolata / Italia sgumbieda (scoppiata, n.d.r.) / felsa (falsa, n.d.r.) / érba catìva (erba cattiva, n.d.r) / Italia alla deriva / come una nave di pazzi». Non mi pare che ci sia di che entusiasmarsi, sul piano della denuncia e della caratura linguistica. Altro che, per intenderci, «Napucalisse», il rap sanguinolento su Napoli del nostro Mimmo Borrelli.
Il testo di Martinelli, peraltro, non dà luogo ad alcuna azione. Ermanna Montanari si limita a leggerlo – certo, con la consueta perizia nell’uso della voce – stando in piedi dietro un leggìo (si ripete, si ripete, come si vede, questo Napoli Teatro Festival Italia diretto da Cappuccio) con il solo ausilio (si fa per dire) di frastuoni di batteria e assoli rabbiosi della tromba di Simone Marzocchi. E lo lascia, il leggìo, solo al termine, quando viene al proscenio per recitare a memoria quella che, evidentemente, è considerata da lei e da Martinelli la rivelazione capitale: sulla base di un cervellotico parallelo con il Tommaso d’Aquino che, morente, disse: «Ora tutto quello che ho scritto non mi sembra altro che paglia», qui si afferma che, in punto di morte, «anche a Dante pare che il suo poema non sia che paglia che verrà dispersa dal Tempo».
Inutile fare commenti. Stiamo parlando del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra». E stiamo parlando del Tommaso d’Aquino la cui «Summa theologiae» costituisce la decisiva fonte dottrinale della Commedia, quella che a Dante fornì il significato storicamente fondato delle parole-chiave comprese nel suo capolavoro. Per quale misterioso motivo il credente Dante avrebbe dovuto rinnegare, nel momento del trapasso, le certezze che incrollabilmente avevano alimentato la sua vita, insieme quella dell’uomo e quella del poeta?
Ricordo a Martinelli (e lo ricordo a Cappuccio, che nella nota introduttiva al catalogo del suo festival dice che «nasce da una visione onirica la Divina Commedia») ciò che scrisse uno dei massimi interpreti della Commedia, Charles Singleton: «In nessun punto dell’opera queste cose ultraterrene vengono presentate come visione o come sogno. Queste cose accaddero, e il poeta che fece quel cammino in carne e ossa e le sperimentò, è, ora che è tornato, uno scriba che le registra come avvennero».
Basta, però. Lo spettacolo che il Teatro delle Albe ha portato al Napoli Teatro Festival Italia si rivela, oltre ogni dubbio, come la comoda pausa che Martinelli e la Montanari si son presa fra l’«Inferno» allestito l’anno scorso e il «Purgatorio» e il «Paradiso» annunciati, rispettivamente, per l’anno prossimo e il 2021.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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2 risposte a E in punto di morte Dante si pentì d’aver scritto la Commedia

  1. Carmela Petrania scrive:

    Caro Enrico,
    seguo sempre con interesse le sue pagine critiche. Per la maggior parte mi trovano concorde, ma forse Lei è stato troppo severo nel giudizio nei riguardi di questo spettacolo del Teatro delle Albe.
    Non ho letto la presentazione dello spettacolo, che forse lasciava intendere cose diverse, ma a me, che ho visto “Fedeli d’amore” a digiuno di tutto, il legame con la Divina Commedia non è sembrato influente. Quello che ci ho visto è stata – soffermandosi su un momento peculiare della vita di Dante, cioè la sua fine, attraverso la rarefazione di una nebbia che dappertutto entra e tutto rende indistinto – la rappresentazione di una vita da poeta, il poeta ramingo e perseguitato, il poeta dell’estasi d’amore e anche carnale, tutto quello che rende veramente grande e popolare un poeta, nel senso che è riconosciuto anche dagli umili come proprio poeta.
    Beh, io ci ho voluto vedere questo, mi ha emozionato. Le due parti centrali riguardanti l’attualità erano un po’ stucchevoli, ma tant’è. La Montanari è splendida e sincera, la scena mi è sembrata elegante.
    Con imperitura stima Le invio cordiali saluti.
    Carmela Petrania

  2. Enrico Fiore scrive:

    Cara Carmela,
    innanzitutto La ringrazio per l’attenzione e la stima che mi riserva. E poi Le faccio osservare che, nel caso di Dante Alighieri, non è possibile nutrire la concezione romantica del poeta che Lei manifesta: Dante non è un poeta qualsiasi, è l’autore della Divina Commedia, ossia di un poema teologico che, avendo come riferimento dottrinale la “Summa Theologiae” di Tommaso d’Aquino, si traduce in un’altissima meditazione sulla natura e sul destino dell’uomo. Il limite dello spettacolo di cui parliamo sta proprio nel ridurre Dante alla pura cronaca, per giunta concedendosi la licenza, del tutto infondata, d’immaginare che in punto di morte abbia rinnegato il suo capolavoro, giudicandolo nient’altro che “paglia”. Il resto – la prova della Montanari e la scena – sono elementi accessori, appartengono alla dimensione formale dell’allestimento.
    Le ricambio i saluti, con altrettanta cordialità.
    Enrico Fiore

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