Napoli Teatro Festival Italia, un gigante senza identità

Isabelle Huppert, che leggerà brani da «L'amante» di Marguerite Duras (foto di Carole Bellaiche)

Isabelle Huppert, che leggerà brani da «L’amante» di Marguerite Duras (foto di Carole Bellaiche)

NAPOLI – Riporto il commento al cartellone dell’edizione 2018 del Napoli Teatro Festival Italia pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

«Dopo nove anni rimane ancora una sembianza informe, un contenitore da stipare con le offerte disponibili al momento sul circuito delle grandi agenzie e con piccole mance elargite agli operatori del territorio. Nulla, insomma, che abbia a che fare con una strategia. Nulla che metta radici e cresca». E ancora: «S’ispira al «modello “grandi magazzini”, dove si espongono i brand altrui, non il proprio».
Sono le parole con cui, in un articolo pubblicato il 9 luglio del 2016, il direttore di questo giornale, Enzo d’Errico, definì il Napoli Teatro Festival Italia diretto da Franco Dragone. E quelle parole, che condivisi dalla prima all’ultima sul mio sito «Controscena.net», valgono, oggi, anche per il Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio. Così come vale il commento che ad esse aggiunsi: anche nel cartellone dell’edizione 2018 del Napoli Teatro Festival Italia non è dato scorgere né un progetto, né un filo conduttore, né una sostanza spettacolare rilevante.
Non si tratta, dunque, di un problema d’ordine estetico. Gli spettacoli in programma potranno essere belli, meno belli o brutti, ma questo accade in ogni festival. Ciò che manca al Napoli Teatro Festival Italia è, puramente e semplicemente, l’identità. Ossia la capacità di scegliere fra gli spettacoli necessari e gli spettacoli inutili sulla base di un disegno politico (nel senso nobile dell’aggettivo) e culturale (nel senso latino dell’aggettivo, derivante dal verbo, «colere», che significa coltivare). Mancano, in breve, le idee, e soprattutto manca un’idea del teatro, ossia di quel che il teatro può e deve essere nell’epoca complessa e mutevolissima che viviamo.

Ruggero Cappuccio

Ruggero Cappuccio

In questo senso, il Napoli Teatro Festival Italia rispecchia perfettamente la situazione teatrale cittadina, che sconta la netta prevalenza del teatro concepito come pura e sterile rappresentazione, e dei cartelloni allestiti come vetrine in cui esporre solo i capi garantiti da firme accorsate, sempre le stesse. Infatti, è sin troppo facile rilevare che – nel «mare magnum» dell’edizione di quest’anno (11 sezioni, 34 giorni di programmazione, 55 titoli) – fa bella mostra di sé l’assenza del teatro di ricerca.
In compenso, straripano, per l’appunto, i soliti grandi nomi esibiti come i proverbiali fiori all’occhiello «pour épater les bourgeois»: a parte quell’Eimuntas Nekrosius che, come ho scritto l’anno scorso a proposito della prima edizione del Napoli Teatro Festival Italia diretta da Cappuccio, ormai manca poco che tenga laboratori persino a Canicattì e Cinisello Balsamo, sfileranno in passerella Declan Donnellan, Isabelle Huppert, Michail Baryshnikov, Andreij Konchalovskij e Laetitia Casta.
Ma ecco il punto: che cosa faranno? Per esempio, la Huppert (esibita, si capisce, nel San Carlo, diventato una sorta di cilindro del prestidigitatore che dovrebbe nobilitare di per sé tutto e il contrario di tutto) proporrà l’ennesima delle letture (stavolta è il turno di Marguerite Duras) che porta in giro per l’Italia da anni e anni, a cominciare da quella di Nathalie Sarraute che offrì nel 2002 durante l’Ortigia Festival di Siracusa per finire a quella di Pinter offerta nel dicembre scorso, in coppia con Jeremy Irons, al Premio Europa per il Teatro. E leggerà (per l’esattezza poesie di Brodskij) anche Baryshnikov, che di professione fa, o faceva, il ballerino. Mentre, per celebrare il centenario della nascita di Ingmar Bergman, verranno proposti ben due allestimenti di «Scene da un matrimonio», uno con la regia di Konchalovskij e l’altro interpretato dalla Casta.
Ne sarebbe bastato uno, ma si doveva, per l’appunto, sciorinare quanti più nomi eclatanti era possibile. E in proposito, vorrei fare una semplicissima considerazione. Perché, al posto di uno dei due allestimenti di «Scene da un matrimonio», non si è pensato di portare a Napoli «The Year of Cancer», lo spettacolo tratto dal romanzo di Hugo Claus e realizzato dalla Toneelgroep, la formidabile compagnia di Amsterdam? È una sorta di equivalente, appunto, di «Scene da un matrimonio», e – diretto da un regista di vaglia come Luk Perceval e interpretato dagli strepitosi Maria Kraakman e Gijs Scholten van Aschat – ha letteralmente sconvolto il pubblico olandese. Portarlo a Napoli non sarebbe stato un modo di rendere omaggio a Bergman in maniera inedita e, quindi, più efficace?

Michail Baryshnikov, che leggerà poesie di Brodskij (foto di Janis Deinats)

Michail Baryshnikov, che leggerà poesie di Brodskij (foto di Janis Deinats)

Ma a portare quello spettacolo in Italia ha pensato, ad aprile, il Piccolo Teatro di Milano. E in ciò consiste la riprova della visione anchilosata del teatro che nutrono il Napoli Teatro Festival Italia nella fattispecie e il teatro pubblico cittadino (lo Stabile innanzitutto) in genere. Perché, certo, Perceval è meno noto di Konchalovskij, così come la Kraakman è infinitamente meno nota della Casta. Del resto, tale discorso vale per lo stesso spettacolo di apertura del Festival. «Regina Madre», di Manlio Santanelli, è una commedia di gran valore. Ma ha trentaquattro anni. Non sarebbe stato meglio allestire, di Santanelli, il nuovo e ancora non rappresentato testo «La serva del Principe»?
È la stessa obiezione che posi allo Stabile di Napoli in occasione dell’apertura della sua stagione, nell’ottobre dell’anno scorso, con «Uscita di emergenza». E Santanelli in persona mi telefonò per dirmi che avevo ragione e che inutilmente s’era espresso con uguali considerazioni presso lo Stabile. Non c’è proprio niente da fare, evidentemente. Si preferisce andare sul sicuro, puntare sui titoli e sui nomi già proposti e riproposti. E dunque si piega il pubblico teatrale alla stessa fruizione passiva che tocca a quello televisivo, mentre, contemporaneamente, si allontana il teatro dalla vita, ovvero dai problemi che dobbiamo affrontare oggi.
Altrove si procede diversamente. Emilia Romagna Teatro, avendo deciso di allestire uno spettacolo sul problema-chiave del lavoro, ha selezionato tramite un bando pubblico sedici attori (otto uomini e otto donne) di ogni parte d’Italia, i quali hanno realizzato circa cento interviste sul tema con persone tra le più varie, non esclusi, ovviamente, gl’immigrati, e quindi hanno portato i dati raccolti all’autrice e regista rumena Gianina Carbunariu, che insieme con loro ne ha ricavato un testo messo in scena al Teatro delle Passioni di Modena. È così che il teatro può mettersi in contatto con la società, è così che può ritrovare la sua natura di assemblea civile, è così che può legittimamente svolgere un ruolo di promozione culturale.
Chiudo. Io non pretendo che Cappuccio accolga nel suo Festival i Rimini Protokoll o Milo Rau. Ma so che è andato a Firenze, al Teatro di Rifredi, a vedere «Il principio di Archimede», un eccellente spettacolo che – su testo del catalano Josep Maria Miró, uno dei drammaturghi europei di punta – affrontava l’altrettanto drammatico problema della pedofilia. Bene, perché al Napoli Teatro Festival Italia non arriva almeno qualcosa del genere?

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 8/6/2018)

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