Incontro al confine fra Godot, Ionesco e Scarpetta

Da sinistra, Vincenzo Salzano, Valeria Pollice e Giuseppina Cervizzi in un momento di «Nella fossa» (la foto è di Angelo Maggio)

Da sinistra, Vincenzo Salzano, Valeria Pollice e Giuseppina Cervizzi in un momento di «Nella fossa»
(la foto è di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – Siamo nel 2048. E il testo dice, contemporaneamente, che ci troviamo in un punto preciso del mondo e al confine, in una terra di nessuno geograficamente non collocabile in alcuno Stato. Dunque, sono il paradosso e l’ambiguità che presiedono a «Nella fossa», l’atto unico di Gianni Vastarella presentato da Punta Corsara nell’ambito della XIX edizione del festival «Primavera dei Teatri».
Infatti, i due personaggi nei quali c’imbattiamo non sanno perché sono lì e a che cosa serva il loro lavoro: non lo sa il becchino che sta scavando la fossa di cui nel titolo e non lo sa l’uomo, definito affidabile, che ha il compito di sorvegliarlo e di assicurarsi che scavi con la lena e la velocità necessarie. L’uomo affidabile sa solo che fra meno di trenta minuti dovrebbe arrivare una persona. Ma a poco a poco capiamo che il Godot messo in campo da Vastarella richiama, più che Beckett, un misto di Ionesco e di Scarpetta inzuppato nell’avanspettacolo.
Voglio dire, con ciò, che il testo procede – in una dimensione surreale – per progressive rivelazioni che ricorrono a una comicità volutamente svagata con lo scopo preciso di non annegare nell’ideologismo le verità drammatiche che via via salgono a galla: prima fra tutte quella relativa al fatto che nella «terra di nessuno» in questione s’è instaurata la dittatura di un Ministro della Salute che, per cominciare, ha vietato la musica e le poesie.
In compenso, grazie alle cure da lui dispensate, si muore di meno, tanto è vero che sempre più lunghe sono le file alla posta per ritirare la pensione. E si morirebbe ancora di meno, se non fosse per quel maledetto trenta per cento di suicidi. In ogni caso, è proprio per questo che il nostro becchino, licenziato dal cimitero, è stato ingaggiato dall’uomo definito affidabile: «Di questi tempi» – spiega costui – «non è facile trovare un becchino che scavi una fossa» ed «è praticamente impossibile trovare un becchino con una pala».
Il becchino, a sua volta, spiega all’uomo definito affidabile, con il quale non riesce ad intendersi, che al cimitero tutti lo ascoltavano e tutti gli davano ragione perché «chi tace acconsente». E se l’uomo definito affidabile rivela che il becchino fu licenziato perché lo trovarono a letto con «una donna morta… messa a nuovo… truccata… con la camicia da notte», lui ribatte: «Voi non potete capire, lei era tutto per me… ci amavamo veramente», aggiungendo, in risposta all’obiezione: «Come poteva amarla? Era morta», la dichiarazione esaustiva: «Lei era l’unica donna in grado di darmi un po’ di calore umano».
Sì, proprio il paradosso combinato con l’ambiguità. Un’ambiguità che, poi, finisce a tradursi in ambivalenza, quando dal fondo della fossa viene fuori una donna incinta che si scopre essere la moglie del Ministro della Salute, da lui ibernata trentaquattro anni prima. Quel bambino che dovrebbe nascere costituisce, forse, la metafora di una palingenesi.
Certo, non tutto si tiene, e nel testo e nello spettacolo che ne discende, diretto dallo stesso Vastarella: troppi i temi messi sul tappeto a fronte degli appena cinquantacinque minuti di rappresentazione, troppo scontata la scelta di alcuni di essi (si tirano in ballo anche le banche, la pubblicità televisiva e persino la Madonna di Medjugorje) e, almeno in qualche momento, troppo affrettato o confuso il loro svolgimento. Sicché, in definitiva, prevale il gioco, nel complesso efficace, degl’interpreti: Giuseppina Cervizzi (l’uomo definito affidabile), Vincenzo Salzano (il becchino) e Valeria Pollice (la moglie del Ministro della Salute).
La sequenza migliore, sul piano della godibilità, è quella che risolve in chiave horror la scena in cui la moglie del Ministro della Salute emerge dalla fossa: la donna appare come uno zombi e, nello stesso tempo, vomita una bava verde, col che – davvero una bella idea – si mescolano i morti viventi di Romero e le antiche credenze popolari circa i segni della possessione diabolica. Ma è un po’ poco. E l’annotazione mi serve per dire che (stando, almeno, ai nove spettacoli che ho visto) il punto debole di quest’edizione di «Primavera dei Teatri» è sicuramente il lavoro sulla drammaturgia.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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