Copenaghen, processo alla scienza in vista dell’atomica

Da sinistra, Massimo Popolizio, Umberto Orsini e Giuliana Lojodice in un momento di «Copenaghen» (la foto è di Marco Caselli Nirmal)

Da sinistra, Massimo Popolizio, Umberto Orsini e Giuliana Lojodice in un momento di «Copenaghen»
(la foto è di Marco Caselli Nirmal)

NAPOLI – È in scena al Diana lo spettacolo «Copenaghen». Lo vidi quindici anni fa, quando arrivò per la prima volta a Napoli. E ne ripropongo, quindi, la recensione che pubblicai il 14 novembre del 2003.

«Non è forse vero che tutto fa prevedere la notte imminente, e nulla l’inizio di tempi nuovi? Non dovremmo allora assumere un atteggiamento più consono ad uomini che vanno incontro alla notte?». Sono gl’interrogativi che Brecht si pose nelle note a «Vita di Galileo», scritte alla vigilia della guerra nazista. E, tanto spontanei quanto prepotenti, mi tornarono in mente mentre, al Mercadante, assistevo all’allestimento di «Copenaghen» di Michael Frayn, ripresentato ora al Diana dalla Compagnia Umberto Orsini, dal Teatro di Roma e dal CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia.
Ma non si tratta solo del fatto che, come in «Vita di Galileo», anche qui – sullo sfondo dell’incontro avvenuto nel settembre del ’41, per l’appunto a Copenaghen, fra i due grandi fisici Werner Heisenberg e Niels Bohr – viene affrontato il problema del rapporto fra la scienza e l’etica e, quindi, fra la scienza e il potere politico. In effetti, i due testi – quello di Brecht e quello di Frayn – si somigliano molto: Heisenberg, in qualche modo compromesso col regime hitleriano, e Bohr, alle prese con i pericoli che gli prospetta l’essere ebreo, sanno entrambi che dalle loro scoperte nascerà la bomba atomica; e per nostro conto sappiamo che, dopo Hiroshima, Brecht riscrisse il proprio dramma per ben due volte, fino ad assimilare Galileo a una sorta di Oppenheimer del Seicento. Opposto, però, è l’approdo dei due fisici di Frayn rispetto agl’interrogativi brechtiani citati.
In «Copenaghen» quel gran parlare di date – anni mesi giorni puntigliosamente cercati nella memoria ed esibiti finanche con protervia – costituisce la spia del desiderio ossessivo e delirante, da parte di Heisenberg e Bohr, di padroneggiare e, dunque, fermare lo scorrere del tempo, ossia l’avverarsi di ciò che essi temono e il prosieguo di ciò che, purtroppo, è già cominciato. Non a caso, del resto, i tre personaggi in azione – appunto Heisenberg, Bohr e la moglie di quest’ultimo, Margrethe – rievocano l’incontro del ’41 in flashback, quando sono ormai morti e, di conseguenza, il tempo davvero l’hanno fermato. E le varie versioni che reiteratamente forniscono di una determinata scena, per esempio dell’avvicinarsi di Heisenberg alla porta di casa dei Bohr, si pongono – più che come un’inchiesta (non dimentichiamo che Frayn ha fatto il giornalista) circa i motivi e i contenuti di quell’incontro – come la metafora di un girare in tondo, nel limbo degli alibi e delle parole, per evitare un’assunzione di responsabilità.
D’altronde, è lo stesso Heisenberg che lo confessa: «[…] insieme noi potevamo fermare tutto». Sicché, rispetto a «Vita di Galileo», la differenza radicale e la modernità coinvolgente di «Copenaghen» consistono nel fatto che il testo di Frayn finisce per concludere – al termine di un autentico processo – che oggi il vero problema non è, evidentemente, il conflitto fra la scienza e il potere, ma quello fra la scienza e il potere della scienza. E proprio le forme e i ritmi di un’udienza dibattimentale il regista Mauro Avogadro conferisce alla rappresentazione: in ciò altrettanto giustamente sostenuto dalla scena di Giacomo Andrico, che, sullo sfondo di enormi lavagne ingombre di formule matematiche, colloca un emiciclo che allude, insieme, a un’aula universitaria, a un’arena e, per l’appunto, a un tribunale.
Splendida, infine, è la prova dei tre incomparabili mattatori in campo: Giuliana Lojodice (Margrethe), Umberto Orsini (Bohr) e Massimo Popolizio (Heisenberg). È una prova tanto superba che suggerisce anch’essa due interrogativi. Il primo malinconico: quanti degli attori di oggi saprebbero affrontare un testo del genere? E il secondo ancora più malinconico: quanti lo vorrebbero affrontare?

                                                                                                            Enrico Fiore

 

 

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