«I miserabili», uno sceneggiato in palcoscenico

Victor Hugo in una scultura di Rodin

Victor Hugo in una scultura di Rodin

NAPOLI – Ora, io non voglio ricordare che quando venne pubblicato – a Parigi, nel 1862 – «I miserabili» incontrò subito il giudizio negativo di personaggi del calibro di Flaubert, di Baudelaire e dei Goncourt. Né voglio ricordare che Lamartine considerò quel romanzo «pericolosissimo», perché capace di suscitare speranze fallaci fra i reietti della società. E non voglio ricordare, infine, che Barbey d’Aurevilly, evidentemente collegandosi a Lamartine, disse addirittura che «Les Misérables» erano «una cattiva azione».
Ma resta il fatto che ormai tutti gli studiosi, a parte qualche tifoso sfegatato e irredimibile del «vate» Hugo, concordano nel ritenere che sulle millecinquecento pagine in questione gravino una verbosità dilagante, un’enfasi insopportabile e arbitrî tendenziosi sul piano storico. Mentre risultano datatissimi e oltremodo pretenziosi il positivismo e il determinismo che connotano lo scopo manifestato nella prefazione, quello di voler affrontare, in un colpo solo, i tre grandi problemi che, così come vengono inquadrati da Hugo, all’epoca affliggevano il popolo: «l’abbrutimento dell’uomo per colpa dell’indigenza, l’avvilimento della donna per colpa della fame e l’atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre».
Come se non bastasse, sul versante della struttura dell’opera e dello sviluppo della trama s’accavallano in maniera caotica troppi elementi, e – per quanto riguarda la forma della scrittura e gli approdi espressivi della stessa – il patetismo fa rima con manierismo. Senza contare, poi, l’artificiosità delle passioni messe in campo, connessa a una contrapposizione fra bene e male esasperata e irrimediabilmente confitta nel manicheismo.
Insomma, non riesco a capire che cosa possa aver spinto Luca Doninelli a realizzare l’adattamento teatrale di un simile e (in tutti i sensi) spropositato romanzo che lo Stabile del Friuli Venezia Giulia, il Centro Teatrale Bresciano e il Teatro de Gli Incamminati hanno presentato in «prima» nazionale al Mercadante. Doninelli è persona che stimo molto e alla quale, per giunta, mi hanno legato una frequentazione e, credo, un’amicizia sincera nei lunghi anni in cui fece il critico teatrale per l’«Avvenire». E proprio la competenza specifica acquisita con quest’ultima sua attività, e accoppiata a un noto valore di romanziere, avrebbe dovuto, io penso, sconsigliargli di affrontare un’impresa del genere.
In una nota pubblicata nel programma di sala, Doninelli la definisce «un’impresa sicuramente temeraria, una sfida per chiunque sia disposto a sopportare un grande insuccesso piuttosto che un successo mediocre». E quindi, per giustificarsi, si lancia in una classica arrampicata sugli specchi, affermando – ciò che costituisce un’altra cosa che non riesco a capire – che il romanzo di Hugo «è anche una metafora del Teatro», di modo che «l’attore, rappresentando “I miserabili”, rappresenta anche se stesso e la propria arte».

Giulia Lazzarini, Gastone Moschin e Roberto Bisacco nello sceneggiato che la Rai trasse nel 1964 da «I miserabili»

Giulia Lazzarini, Gastone Moschin e Roberto Bisacco
nello sceneggiato che la Rai trasse da «I miserabili»

A conti fatti, però, siamo di fronte a un innocuo riassuntino che – con qualche problema circa la comprensibilità della trama per chi non la ricordi perfettamente, dato che, s’intende, non è facile comprimere in due ore e mezzo di spettacolo millecinquecento pagine di romanzo – rievoca gli episodi salienti della complicatissima vicenda di Jean Valjean: che so, il «miracolo» dell’ex galeotto che sotto il falso nome di Madeleine diventa sindaco di Montreuil-sur-mer; la sua scelta di crescere come una figlia Cosette, la bambina illegittima nata da quella Fantine che per lei s’era fatta prostituta; la lotta inesausta che intraprende contro l’inflessibile tutore della legge Javert; il generoso slancio con cui porta in salvo Marius, l’innamorato di Cosette rimasto ferito durante la difesa delle barricate del 1832… e così via, fino alla decisione di donare ogni suo avere alla ragazza e di ritirarsi nella solitudine e nella povertà assolute, morendo lentamente di dolore perché, giustappunto, Cosette l’ha abbandonato per Marius. Salvo il finale lacrimevolissimo nel quale, prima di esalare l’ultimo respiro, dice ai due giovani: «Amatevi tanto, sempre; al mondo non v’è nulla, all’infuori dell’amore reciproco. […] Pensate un poco a me: voi siete esseri benedetti. Non so cos’abbia, ma vedo della luce. Avvicinatevi ancora. Muoio felice. Datemi le vostre teste adorate, affinché vi metta le mani sopra».
Ne deriva, per quanto concerne lo spettacolo in sé, un semplice sceneggiato. Che, naturalmente, è molto meno efficace di quello realizzato dalla Rai nel 1964 e firmato da Sandro Bolchi: poiché, si capisce, in palcoscenico non c’è l’immagine, ma il corpo degli attori, con la conseguenza che alla forza e alla leggerezza dell’allusività si sostituiscono il limite e la pesantezza del realismo.
Di stampo realistico risulta, infatti, la recitazione degl’interpreti qui in campo. Accanto a Franco Branciaroli, un Jean Valjean che alterna il mormorio (qualche spettatore della «prima» s’è lamentato di non riuscire a distinguere le parole che pronunciava) a improvvisi scoppi nevrotici, citerei Francesco Migliaccio (Javert), Ester Galazzi (Fantine/Baptistine) e Riccardo Maranzana (Thénardier). E dal canto suo, il regista Franco Però non sembra aver fatto molto di più che determinare uno straniamento superficiale, e perciò del tutto inutile, facendo manovrare agl’interpreti medesimi gli elementi mobili della scenografia che suggeriscono i cambi d’ambiente.
In definitiva, uno spettacolo che chiude la stagione dello Stabile di Napoli, fresco della riconferma come Teatro Nazionale, nel segno di ciò che in prevalenza l’ha distinta: nel segno, intendo, di un teatro imbalsamato e lontanissimo dai problemi e dalle sensibilità odierni, di un teatro che si preoccupa, sostanzialmente, di offrire agli spettatori il semplice intrattenimento, mentre dovrebbe, al contrario, spingerli a costituirsi in un’assemblea civile aperta alla crescita delle coscienze e della società.
P.S. Il presente articolo viene pubblicato senza foto di scena perché i tre organismi che producono lo spettacolo in questione – ripeto, lo Stabile del Friuli Venezia Giulia, il Centro Teatrale Bresciano e il Teatro de Gli Incamminati – non hanno ritenuto di spendere nemmeno un centesimo per farne scattare qualcuna. Hanno diffuso soltanto due fotografie di Branciaroli in posa. E io mi rifiuto di cedere alle pretese di un divismo – peraltro risibile – in tutto e per tutto fuori dal tempo.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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2 risposte a «I miserabili», uno sceneggiato in palcoscenico

  1. Mario Conti scrive:

    Un pezzo a cui mi associo integralmente.
    L’operazione appare di pura divulgazione, didascalica; un compitino assennato, da inserire in un’ideale collana “I Grandi Romanzi a Teatro in Meno di Tre Ore”. Ma dal travaso molti personaggi e temi escono pesantemente banalizzati o travisati: uno per tutti, l’enfatico Javert.
    Stupisce che Branciaroli ci abbia trovato qualcosa in più; mentre non stupisce che a tratti venga fuori l’imitazione di Carmelo Bene. Le recitazioni migliori vengono piuttosto da personaggi minori, come Eponine (chi è delle attrici?).
    Dissento solo dalla severità con cui Fiore bolla Hugo, seppure si debba ammettere che qualcosa nel romanzo risente dei 150 anni trascorsi.
    Mario Conti

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Conti,
    soddisfo subito la Sua curiosità: l’attrice che interpreta il personaggio di Eponine si chiama Valentina Violo, e sono d’accordo con Lei nel considerarne la prova fra le migliori che fornisca il cast in campo. Per quanto riguarda, invece, la mia “severità” nei confronti di Hugo, mi permetto di farLe osservare che, come ho cercato di dimostrare, è la stessa di tanti illustri commentatori de “I miserabili”, sia contemporanei dell’autore sia venuti dopo di lui. Ed oggi, poi, risulta pressoché unanime il giudizio sostanzialmente negativo che gli studiosi danno di quell’opera, resa abbondantissimamente superata dai molti anni (per l’esattezza sono 156) che si porta sul groppone.
    Grazie, comunque, per il Suo intervento. E voglia gradire i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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