Antonio Neiwiller, l’innocenza armata

Antonio Neiwiller, del quale ricorre il venticinquesimo anniversario della morte

Antonio Neiwiller, del quale ricorre il venticinquesimo anniversario della morte

NAPOLI – Riporto la rievocazione di Antonio Neiwiller che, a venticinque anni dalla sua morte, ho pubblicato ieri sul «Corriere del Mezzogiorno».

Ha fatto bene Vincenza Modica a nominare Kantor e, soprattutto, Enzensberger parlando con Mirella Armiero di Antonio Neiwiller a venticinque anni dalla sua scomparsa.
A proposito di Enzensberger, io mi sono chiesto perché, ogni volta che cade un anniversario significativo riguardante Neiwiller, appaia ineludibile il confronto con «La fine del Titanic», il capolavoro del poeta tedesco: nel 2003, a dieci anni dalla morte prematura di Neiwiller, Pierpaolo Sepe allestì uno spettacolo ispirato a quel poema e nel 2013, vent’anni dopo la morte di Neiwiller, Salvatore Cantalupo, uno degli interpreti dell’edizione originaria, riallestì nella Sala Assoli «Titanic the end», lo spettacolo più emblematico dello stesso Neiwiller. E, naturalmente, la risposta alla domanda sta nella storia.
Giova ricordare, al riguardo, che il primo spettacolo significativo di Neiwiller, che aveva appena fondato insieme con Renato Carpentieri la cooperativa Teatro dei Mutamenti (in seguito confluita in Teatri Uniti insieme con Falso Movimento di Martone e il Teatro Studio di Servillo), fu, nel 1977, «Maestri cercando: Elio Vittorini». Uno spettacolo il cui titolo non sarebbe potuto essere più esplicito: giacché per un verso indicava la volontà (e il bisogno) di rintracciare sicuri punti di riferimento sul piano teorico e per l’altro precisava, giusto facendo il nome di Vittorini, che quei punti di riferimento non potevano prescindere da una caratterizzazione «militante».
In Neiwiller, difatti, l’attività artistica e l’impegno civile e politico furono incessantemente e strettissimamente congiunti. E di qui scaturì l’attenzione prevalente rivolta alla Parola: quella poetica soprattutto, poiché lo stesso Neiwiller era, del resto, scrittore di poesia.
Parliamo, in breve, di una tensione ideale e culturale che davvero non a caso trovò in Pasolini una fonte d’ispirazione decisiva. Voglio dire che la ricerca di Neiwiller va riferita all’obiettivo che per l’appunto Pasolini indicò nel suo celebre manifesto «Per un nuovo Teatro»: quello di sostituire al «teatro della Chiacchiera» un teatro che trovi «il suo “spazio teatrale” non nell’ambiente ma nella testa».
In altri termini, l’obiettivo di Antonio Neiwiller fu sempre, e irrinunciabilmente, il colloquio creativo con il pubblico. E dunque, il cerchio si chiude perfettamente: se penso che Enzensberger, mentre nel ’63 iniziava «Origine di una poesia» dichiarando: «Signore e Signori, non ho niente di nuovo da dirvi», poi scrisse quasi sempre in seconda persona. Era l’eroico tormento dell’ansia di comunicare. Che fu lo stesso di Neiwiller.
Contemporaneamente, occorre por mente all’attacco di «Titanic the end», con Neiwiller nel ruolo di regista in scena che fu di Kantor e gl’interpreti immobili sotto una specie di lenzuolo funebre, in uno spazio invaso dalla nebbia e dalla musica iterativa di Philip Glass. Si trattava di un richiamo alle constatazioni decisive di Enzensberger («Il tempo degli esperimenti è finito» e «Qualsiasi avanguardia d’oggi è necessariamente ripetizione, inganno, illusione»), mentre la sirena che di tanto in tanto spingeva gl’interpreti al parossismo era, insieme, quella d’allarme del Titanic che affonda e l’equivalente del valzer che spinge i vecchi decrepiti de «La classe morta» a levarsi in piedi nei banchi, nel tentativo disperato di mutare quel valzer in una «forma» che li salvi dal nulla.
Ma davvero tutto si tiene, nel caso di Antonio Neiwiller. Aveva una faccia da bambino, e del bambino aveva gli stupori e la tenerezza. Ma era, la sua, un’innocenza armata. Basta ricordare la profondità e l’«irregolarità» degli autori che ha frequentato, da regista, da attore e da regista e attore insieme: fra gli altri, a parte quelli citati sopra, Petito, Heine, Basile, Picasso, Eduardo De Filippo e Pirandello. E per dire di come li ha frequentati, faccio solo l’esempio del suo allestimento, realizzato nell’agosto del ’78 appunto per il Teatro dei Mutamenti, di «Don Fausto», una fra le più complesse e riuscite parodie di Petito.
Neiwiller lesse il personaggio di Don Fausto, ovviamente mutuato dal Faust di Goethe, non come un prototipo farsesco, ma come quello del «diverso» che attua, nel sogno, la fuga da una realtà urbana già compromessa dagli asfittici e ripetitivi meccanismi della civiltà industriale. E gli attori, vestiti a metà fra i clown e gli astronauti in viaggio verso la luna, apparivano disarticolati e in perenne squilibrio. Era l’ultima beffa all’ordine costituito. E non a caso, perciò, Neiwiller aveva voluto firmare, nel marzo precedente, la regia di uno spettacolo come «Berlin Dada 1918-1920».
Immaginava una piccola compagnia che recitava ogni sera, in un piccolo spazio, le «scene della rivoluzione tedesca» e, per un pubblico capitato «per errore» dietro le quinte, inventava, occasionalmente, appunto una serie di numeri Dada. Di modo che, all’interno della metafora del rapporto avanguardia-rivoluzione e di un gioco sul teatro, alle poesie fonetiche e ai poemi simultanei si alternavano materiali assai più esplicitamente connotati sotto il profilo ideologico, come la «Canzone del fronte unito» di Brecht ed Eisler e un frammento delle scene di Azdak dal «Cerchio di gesso del Caucaso».
Per concludere penso, allora, al Neiwiller che nell’85 interpretò il personaggio del soldato nel testo di Picasso «Il desiderio preso per la coda» messo in scena con la regia di Martone. Alla fine quel povero fantaccino impaurito abbandonava la baionetta per stringersi al petto – ultima difesa ed arma rintracciabili – soltanto un fraterno fiasco di vino. Non c’era più l’attore Antonio Neiwiller, ma solo il compagno di strada Antonio. E questo rividi, sul filo della memoria e del sentimento, quando nel luglio del ’94 mi ritrovai a Santarcangelo – in una cava abbandonata, tra muri sbrecciati e macchine rugginose – per la «prima» del «Mal-d’-Hamlé» di Moscato, poi compreso nella «Quadrilogia di Santarcangelo» pubblicata con la mia introduzione dalla Ubulibri di Franco Quadri.
A un certo punto, dal buio, Hamlé/Moscato prese a scandire i nomi di Leo de Berardinis, Carmelo Bene, Annibale Ruccello e, appunto, Antonio Neiwiller. Ma non si cedeva al ricatto della nostalgia. La citazione de «Le cinque rose di Jennifer» si tramutò nella canzone di Donovan: «Jennifer, Juniper, / lives upon the hill…». E quei nomi trascolorarono nel rapinoso sogno dantesco: «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse, al voler vostro e mio».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 25/4/2018)

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