Il triennio dei soliti noti

Luca De Fusco

Luca De Fusco

Allora, eccoci al documento programmatico per il triennio 2015/2017 del Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, presentato dal suo direttore, Luca De Fusco, con i soliti toni trionfalistici e autoelogiativi. Al riguardo, ci sarebbero moltissimi problemi da affrontare. Ma mi limiterò a quelli essenziali che balzano subito agli occhi, anche a una lettura frettolosa del documento programmatico in questione. E la prima considerazione che mi viene da fare è che ci attendono tre stagioni all’insegna dei soliti noti. In tutti i sensi.
Cominciamo dagli autori. Le scelte compiute da De Fusco risultano per la gran parte ancorate a una tradizione che, per quanto illustre, non può che tradursi in un’attività di messinscena piuttosto ripetitiva. Ancora i tragici greci, ancora Shakespeare, ancora Molière, ancora Cechov, ancora Eduardo De Filippo. Dove sono – tanto per fare solo qualche nome riferito alle drammaturgie in lingua inglese, francese e tedesca – i vari Edward Bond e Harold Pinter, Jean Genet, Bernard-Marie Koltès e Jean-Luc Lagarce, Heiner Müller, Thomas Bernhard e il Premio Nobel Elfriede Jelinek?
C’è appena il solitario Beckett di «Giorni felici» affidato alla bravissima Angela Pagano. Ma mi sembra un po’ poco. E lo stesso discorso può farsi a proposito dei più importanti autori italiani (intendo i non napoletani) di oggi. Mancano all’appello, poniamo, Edoardo Erba e Stefano Massini. Del resto, ricordiamolo ancora una volta, non è un caso che la commissione ministeriale incaricata di assegnare le qualifiche di Teatro Nazionale abbia attribuito a De Fusco, per quanto concerne l’innovatività dei progetti, 0 (zero) punti su 4 (quattro).
Eduardo Cicelyn ha osservato oggi su «la Repubblica» che allo Stabile di Napoli «il titolo di teatro nazionale è stato assegnato non senza il calcio nel didietro alla programmazione artistica». E nel merito, al di là dei nomi degli autori, c’è da aggiungere il già visto di non poche delle proposte comprese nel documento di cui parliamo: si va dall’«Agamennone» che aprirà l’«Orestea» firmata dallo stesso De Fusco, dato a maggio dell’anno scorso nel Teatro Greco di Siracusa, alle «Baccanti» riscritte da Enzo Moscato, date la bellezza di dieci anni fa nell’ambito di Benevento Città Spettacolo.

Enzo Moscato

Enzo Moscato

Perché, invece, non si è scelto il Moscato che ha riscritto la «Carmen» di Mérimée e Bizet per lo spettacolo, splendido, coprodotto dagli Stabili di Torino e di Roma per la regia di un altro napoletano di rango come Mario Martone? Ammesso e non concesso che Martone avrebbe accettato l’eventuale invito. E perché, ancora, si è scelto di far tornare il Latella di «C’è del pianto in queste lacrime» e non di far venire a Napoli il nuovo spettacolo che sta preparando, ispirato al cinema di Fassbinder e garantito dalla presenza di un’attrice del calibro di Isabella Ferrari?
Latella, peraltro, ci consente d’introdurre il discorso sulle compagnie stabili (una per il teatro in lingua e una per il teatro in dialetto) che De Fusco ha annunciato di voler costituire. Quello di dar vita a una compagnia stabile era per l’appunto il progetto delineato da Latella quando assunse la direzione artistica del Nuovo che fu poi costretto a lasciare dopo neppure un anno. E non v’è dubbio circa la bontà della compagnia stabile. Basta, in proposito, pensare al Berliner Ensemble. Ma occorre aggiungere che esiste una certa differenza fra i termini «ensemble» e «clan».

Antonio Latella

Antonio Latella

Il termine «ensemble» indica un gruppo di persone che, in assenza di qualsiasi gerarchia, uniscono le loro competenze ed esperienze al fine di raggiungere un obiettivo comune. Il termine «clan» indica, al contrario, un gruppo di persone che, per interesse individuale, entrano in un’organizzazione mettendosi al servizio del suo capo col fine di raggiungere quello che è solo l’obiettivo del capo medesimo. E deve stare attento, Luca De Fusco: sta costituendo un «ensemble» o un «clan»?
La domanda è assolutamente legittima, se pensiamo alla corsa dei molti che si sono affrettati a saltare sul carro del direttore del Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale dimenticando con analoga fretta quanto in un passato nemmeno troppo lontano avevano detto contro di lui e dimenticando, soprattutto, la loro precedente militanza politica e culturale, di tutt’altro segno rispetto a quella incarnata dalle posizioni di centrodestra di De Fusco.
Il rischio è che prevalga, appunto, la logica del clan, che si basa sulle gratifiche concesse dal capo agli affiliati in cambio della loro obbedienza. Penso, sempre tenendo presente il documento programmatico di cui discorriamo, alle carriere vertiginose di taluni giovani registi, chiamati a mettere in scena testi di una difficoltà estrema senza avere alle spalle un apprendistato pari all’impresa. È come se quei giovani registi, in veste di scalatori, fossero chiamati ad arrampicarsi sul K2 senza esser prima arrivati almeno in cima al Monte Bianco. E il discorso, naturalmente, riguarda anche certi attori e certe attrici.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Il triennio dei soliti noti

  1. Carlo Cerciello scrive:

    «Caro Enrico,
    nel ringraziarti per essere rimasto l’unico a citare e difendere il “teatro” di qualità, nel contesto di questo tristissimo caravanserraglio programmatico, posto in essere dal dannunziano direttore maximo del nostrano Teatro Nazionale, ti confermo che i tuoi avanzati dubbi sulla composizione di clan più o meno stabili in seno alla struttura pubblica sono delle assolute certezze, e da molto tempo. Del resto tutta la politica relazionale posta in essere dal casareccio Roi Soleil nella sua Versailles teatrale, con la complicità dell’immarcescibile “am…miraglia” alla cultura regionale, è fondata sul principio della formazione clientelare del consenso e del “do ut des”: dalla logica spartitoria dei premi teatrali all’impostazione nepotistica delle assunzioni amministrative, dalla scelta delle produzioni da fare all’imposizione all’interno di queste produzioni di attori e maestranze vicine al capo.
    D’altronde, l’esimio non fa mistero del fatto che, se vuoi essere prodotto, gli devi piacere, gli devi essere simpatico, laddove, per simpatia, s’intende, anche, l’accettazione del suo, diciamo, suggerire, caldeggiare il tal nome, al regista di turno. Quel che è peggio è che, più spesso di quanto immaginiamo, accade che il regista di turno accetti l’invadenza clientelare defuschese, al punto di rinunciare alle sue proprie scelte artistiche, sostituendo i collaboratori da lui previsti con quelli imposti dal sovrano. Naturalmente, ciò accade con i registi meno tutelati, ma anche con quelli non proprio di primo pelo, e più di una messinscena subisce le conseguenze di tale sconfinamento dei poteri del direttore in oggetto, da sempre noncurante dei suoi doveri deontologici di funzionario pubblico.
    Relativamente, poi, alla sua polverosa, ripetitiva e asfittica scelta degli autori da mettere in scena, il nostro non fa che confermare la sua angusta visione culturale, che lo portò a dichiarare, senza mezzi termini, fin dagli inizi del suo insediamento al comando del Teatro Mercadante, che abbisognasse ritornare “a fare teatro per la borghesia”, dimenticando un po’ di cosette fondamentali al riguardo. La prima è che questa categoria, appare, oggi, tanto variegata, tanto indeterminata, da non apparire più identificabile; la seconda è che, in questa città, l’unico pubblico che abbia mai espresso un vero e urgente bisogno di teatro di genere è stato quello della sceneggiata; la terza cosa da sottolineare è che un conto è fare del teatro borghese e un conto è fare teatro per la borghesia: e mi pare che, a tal proposito, la grande lezione di Paolo Grassi sia stata quella di indicarci che il teatro pubblico deve costruire un rapporto reale con la “polis” nella sua totalità.
    E’ pur vero che il nostro direttore non è Strehler, anche se, purtroppo, crede fermamente di esserlo. Gli autori di cui hai parlato tu, caro Enrico, sono troppo rischiosi da “maneggiare”, esigono motivazione, preparazione, conoscenza; ed espongono chi li pratica al giudizio implacabile di pubblico e critica. Ce lo vedi, dunque, il nostro direttore maximo, tutt’al più assimilabile a un assemblatore dei “livrets scéniques” del 1830, alle prese con una Elfriede Jelinek?
    Il problema, comunque, a parte ogni doloroso sarcasmo, è grave, caro Enrico, anzi, gravissimo.
    Questa nuova riforma consente a De Fusco di avere i soldi per comprare il consenso di chiunque, gli consente di far salire sul suo carro tutti, anche chi gli si opponeva flebilmente, gli consente di fare abbonamenti a 5 spettacoli al costo di 20 euro, 4 euro a spettacolo, gli consente di imporre la dittatura della sua inettitudine per altri 5 anni, gli consente di mettere fuori gioco qualsiasi concorrente sia pure di qualità, perché della qualità questa legge non sa che farsene.
    In questa valle di lacrime, proveremo ad organizzare una resistenza, forse ci proveremo a partire dal Napoli Teatro Festival, ma fino a quando la politica terrà in ostaggio la cultura, fino a quando per avere la nomina di un nuovo direttore del Festival dovremo attendere le nuove elezioni regionali, fino a quando il nostro lavoro sarà schiavo del clientelismo partitocratico di turno, fino a quando non ritroveremo la nostra dignità nell’indipendenza, nella solidarietà, nella qualità e nell’urgenza della nostro “fare teatro”, ci toccherà assistere al trionfo della mediocrità e a quello del pubblico “mortale” (vedi: Peter Brook, “Il teatro e il suo spazio”)».
    Carlo Cerciello

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Carlo,
    ti ringrazio, naturalmente, per gli attestati di stima che ancora una volta mi manifesti: ma cerco solo di fare il mio dovere, innanzitutto per il rispetto irrinunciabile che nutro per chi ha la bontà e la pazienza di leggermi; e anche, poi, per il rispetto che debbo a me stesso e a quell’oggetto oggi misterioso che in un tempo lontano si chiamava deontologia professionale. Vedi, io ho sempre messo al primo posto la vita, sempre e comunque. E perciò sono stato, e resto, completamente (ma felicemente) emarginato. Dunque voglio chiudere questa risposta ricordando (e in particolare a te, che sei perfettamente in grado d’intenderle) le ultime parole di Testori che già utilizzai per il messaggio di fine 2014: “In questi anni è stato come se non ci fossi, ma l’importante però è che io non abbia mentito, mai, e che non mi sia mai piegato per non essere isolato”.
    Enrico Fiore

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