Quando killer suona come rapper. E persino come Pinter

Da sinistra, Monica Demuru, Alberto Astorri e  Aldo Ottobrino in un momento di «Belve» (foto di Duccio Burberi)

Da sinistra, Monica Demuru, Alberto Astorri e Aldo Ottobrino in un momento di «Belve» (foto di Duccio Burberi)

PRATO – Lo ripeto. La coppia composta dal napoletano Armando Pirozzi, autore, e dal reatino Massimiliano Civica, regista, costituisce una delle pochissime realtà davvero interessanti e significative del teatro italiano di oggi: il primo scrive testi profondi che sono nello stesso tempo godibilissimi e il secondo li mette in scena non come semplici atti, staccati l’uno dall’altro, della propria routine professionale, ma come gli anelli di una catena che rimanda a una fondata poetica e, di più, a una visione complessiva e a un’analisi circostanziata del teatro e del fare teatro nell’attuale situazione sociale e culturale.
Ne ho trovato l’ennesima conferma vedendo al Metastasio «Belve», la nuova produzione dello stesso Teatro Metastasio. Si tratta di «una farsa», come recita il sottotitolo. E dunque rappresenta – venendo dopo «Un quaderno per l’inverno», prodotto sempre dal Metastasio e insignito l’anno scorso del Premio Ubu per la migliore regia – proprio l’anello successivo della catena di cui dicevo: se il tema di «Un quaderno per l’inverno» era l’ossimoro che accoppiava la problematicità e l’irrinunciabilità della scrittura, quello di «Belve» consiste nel risvolto, appunto una variazione sul tema, della scrittura considerata come puro divertissement.
C’imbattiamo, infatti, in una moglie, Betta, e in un marito, Pippo, che si apprestano a ricevere a cena una coppia di amici, Giorgetta e Giocondo. E ridiamo fin da subito, da quando Betta saluta Pippo che rientra a casa dal lavoro con questo sproloquio: «Ah, Pippo, Pippo. Uomo vero. Ecco cosa sei. Uomo vero. La virilità sprizza fuori dai tuoi occhi come liquido seminale, il testosterone arde attorno a te come un’aura divina. Oh mio Dio. Vorrei darmi a te selvaggiamente come l’ultima delle donne all’ultimo degli eroi».
Attenzione, però. Giusto quanto dicevo a proposito della scrittura di Pirozzi, è come se a questa farsa avessero messo mano, insieme, Scarpetta, Ionesco e Pinter: giacché vi si mescolano, per intenderci, un dispiegarsi di agnizioni classiste che sembra arrivare da «Miseria e nobiltà», un imperversare di paradossi surreali e nonsense che richiama «La lezione» e un rincorrersi di allusioni a un «esterno» tanto imprecisato quanto minaccioso che evoca «Il calapranzi».
Scopriremo, così, che Pippo ha l’intenzione di uccidere Giocondo, perché sospetta che faccia la spia ai suoi danni per conto della grande azienda di cui lo stesso Pippo è dipendente. Ci aveva provato una prima volta col cianuro nel corso di una cena precedente e adesso, non riuscendo a ritrovare la 44 Magnum che aveva nascosto in attesa della vittima designata, chiede l’intervento di Luciano, un killer professionista che non lascia tracce, non usa armi e non usa veleno, ma si serve soltanto delle mani nude.
Senonché, Luciano finisce per rivelare che lui è anche DJXCacopardos, «il rapper dei bassifondi fangosi della metropoli fluorescente». Uno che, per esempio, compone versi del genere: «La tua mano mi disarma, / cambia i segreti connotati del mio karma, / ho dovuto fare tutta questa strada a piedi, / ma ora sono qui da te e tu mi vedi»; oppure: «Dov’era la capra stasera, / andava a farsi tosare, / ho passato il mio tempo migliore / seduto ad aspettarti passare». E dichiara, Luciano, che non può uccidere Giocondo perché s’è innamorato della di lui figlia, Pietra, e soprattutto perché Giocondo è l’unico uomo al mondo che ha comprato l’edizione deluxe del suo disco «Cavoli a Merenda». «Sarebbe un suicidio ideologico», spiega il killer-rapper.
Completano il quadro due poliziotti in abito da sera, uno dei quali comunica agli astanti che è un grande lettore di esoterismo e che la teoria dell’immortalità enunciata da Giocondo l’aveva già sentita enunciare da sua nonna, «ma il fatto che sia sulla Bibbia è controverso, nel senso che si deve leggere un po’ arbitrariamente un dettaglio in aramaico di un versetto di Elia, se non ricordo male, ma per molti studiosi non è altro che un errore di traduzione, e forse riguarda uno dei nomi di Satana. Vorrebbe solo dire che la vita dell’uomo di fede viene premiata in eterno dalla benedizione di Dio, o del Diavolo. Una cosa del genere. Uno dei due, insomma».
Peccato che, poi, l’autore e il regista questa battuta abbiano deciso di tagliarla. A me pare una delle più belle e decisive.
Ma proseguiamo con la descrizione del plot. Come se non bastasse, improvvisamente arriva a benedire la casa un Cardinale Sansovino che Betta chiama «Sa-di-vino» e che se n’esce con la precisazione: «È mio dovere venire a salutare i fedeli più solidi economicamente, fa parte del lavoro spirituale». E se con queste ultime parole Pirozzi mette in campo un nuovo ossimoro per fustigare in specie i compromessi morali, sul piano generale, lo avete capito, «Belve» nasconde, dietro la sua comicità spudorata, un affondo impietoso contro l’immaginario collettivo d’accatto generato dalle fiction televisive e dal dilagare nella letteratura dei «gialli» d’ogni latitudine e, nella musica, giusto dei rapper d’ogni pretensione.
Di qui, sul versante formale ed espressivo, l’adozione sistematica degli stilemi propri di quei generi e il ricalco insistente degli stereotipi del linguaggio corrente indotti dagli stessi. E dal canto suo, la regia di Massimiliano Civica s’inquadra proprio nella visione complessiva e nell’analisi circostanziata del teatro e del fare teatro oggi di cui ho detto all’inizio. Lo annuncia con estrema precisione una nota dello stesso Civica non a caso intitolata «Una farsa moderna».
Vi si legge: «Nel ‘900 i grandi riformatori del teatro come, tra gli altri, Jacques Copeau e Mejerchol’d e, qui da noi, Carlo Cecchi e Leo de Berardinis hanno sentito il bisogno di tornare alla farsa come alla sorgente di un teatro vivo, popolare, immediato, che ricostruisse la relazione tra attori e spettatori sull’effettiva capacità dei primi di coinvolgere i secondi fisicamente, attraverso i sussulti di una risata irrefrenabile». E poi: «Per Cecchi e de Berardinis ritornare alla farsa significava anche compiere un gesto insieme anti-accademico e contro-avanguardistico: era il desiderio di seppellire, sotto la voglia di “ridere, ridere, ridere”, il testocentrismo acritico e il birignao del teatro di prosa assieme a quell’épater les bourgeois che era, a volte, l’altrettanto acritica poetica d’ordine di certo teatro di ricerca».
Avete inteso perfettamente, insomma. Civica moltiplica la comicità presente nel testo di Pirozzi, ma, contemporaneamente, si preoccupa di avvertirci di continuo che la risata che suscita in noi non è solo una risata evasiva, ma è anche, e soprattutto, una risata il cui aggettivo qualificativo fa rima con eversiva: appunto perché, ristabilendo un contatto carnale fra il palcoscenico e la platea, prende di mira l’intellettualismo rachitico che troppo spesso, ai nostri giorni, mette fra parentesi la forza naturale del teatro.
Al riguardo, già la sequenza iniziale risulta oltremodo esplicativa: l’attrice che interpreta Betta esce in proscenio e mima l’atto di aprire il sipario; e quando il sipario viene effettivamente aperto, subito corre a nascondere sotto la tavola imbandita ciò che le sembra imbarazzante. È l’allusione polemica al teatro considerato, e praticato, in termini di puro meccanismo e, giusto, di evasione. Sotto quella tavola, infatti, stazionerà, fra l’altro, il fiasco di vino da cui ad intervalli più o meno regolari la stessa Betta berrà per tacitare la paura. E parliamo, per giunta, di una sequenza che, come di solito accade negli spettacoli di Civica, svolge la funzione di un autentico prologo a quanto vedremo e sentiremo in seguito.
Prendiamo, ad esempio, gli strilli di terrore che lanciano Betta e Pippo ogni volta che sentono bussare alla porta. Fanno ridere, certo, ma nello stesso tempo chiamano in causa proprio l’«esterno» pinteriano di cui dicevo. E si capisce, in breve, che Civica pigia a fondo sul pedale della deformazione grottesca e dell’iperbole simbolica. Mentre non minore risalto attribuisce alla ripetizione, che appunto della farsa è uno dei motori principali: a parte le bevute di Betta, basterebbe considerare, in proposito, che, al loro apparire, Giocondo e Giorgetta si muovono procedendo di lato, in una sorta di sirtaki, esattamente come si muoveranno più tardi i due poliziotti, che Civica apparenta a proverbiali sceriffi del Far West con tanto di stella sul cappello così come apparenta a una checca sgallettata la figlia di Giocondo e Giorgetta.
Ma siamo di fronte a una comicità che, pur irresistibile, appare come sospesa, prigioniera di una dimensione d’ineffettualità che è l’opposto della dimensione di funzionalità in cui si collocava, per l’appunto, la comicità di Scarpetta da cui s’erano prese le mosse. E mi sembra del tutto superfluo, adesso, rilevare con quanta bravura agiscano nella dimensione descritta gl’interpreti in campo: Alberto Astorri (il cardinale, Luciano, un poliziotto), Salvatore Caruso (Giocondo), Alessandra De Santis Giorgetta), Monica Demuru (Betta), Vincenzo Nemolato (il chierichetto, Pietra, un poliziotto) e Aldo Ottobrino (Pippo). Concludendo, per il Metastasio è davvero una gran bella chiusura di stagione.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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