Alla ricerca dell’innocenza perduta nelle tenebre della «Cupa»

Un momento de «La cupa» di Mimmo Borrelli, in scena al San Ferdinando (le foto che illustrano l'articolo sono di Marco Ghidelli)

Un momento de «La cupa» di Mimmo Borrelli, in scena al San Ferdinando
(le foto che illustrano l’articolo sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Comincia con una musica tenue e dolce come una ninna nanna. Ma, poi, «La cupa» di Mimmo Borrelli, che lo Stabile di Napoli presenta al San Ferdinando, si rivela il più forte e violento (mi riferisco, insieme, al testo e all’allestimento) degli spettacoli messi in scena dal drammaturgo di Bacoli. E questo è solo il primo degli ossimori che connotano, ovvero costituiscono, l’opera di cui parliamo.
È uno spettacolo barbarico, nel senso comune dell’aggettivo (di diverso rispetto a un ordine «ufficiale»), ma soprattutto nel senso di innocente (di libero rispetto alle ideologie di massa oggi dominanti). Mi fa tornare in mente, e chiedo scusa per l’autocitazione, «Città Sahara», l’intervento col quale, nel 1982, io e Vittorio Lucariello aggredimmo Venezia nell’ambito del Carnevale del Teatro promosso dalla Biennale e diretto da Maurizio Scaparro. Discendemmo il Canal Grande su una chiatta che ospitava un vero e proprio riassunto della storia dell’uomo e della sua cultura: una colonna ionica a grandezza naturale (ma, ovviamente, di cartapesta), la riproduzione di un monumentale organo settecentesco (che, però, recava sul davanti le sagome di due aerei disegnati con tubicini di neon) e un impianto di diffusione della potenza di ben mille e cinquecento watt che sparava una colonna sonora distesa dagli aborigeni australiani a Bach e ai Rolling Stones, passando per Keith Jarrett e Brian Eno.
Così ci definimmo, per l’appunto, «nuovi barbari», finalmente senza nulla nel cuore: nulla, voglio dire, dei mille tradimenti e lenocini del sentimentalismo e della nostalgia. E anche Borrelli appartiene a questa confraternita, sicché «La cupa» mi sembra non solo e non tanto uno spettacolo teatrale di grande impatto e di rapinosa bellezza, ma anche e specialmente un coraggioso e importante atto d’accusa in merito alla voragine culturale e civile in cui è precipitata Napoli. Lo dice con chiarezza e decisione assolute il personaggio, davvero il personaggio chiave, che non a caso fa di cognome Crescenzo e, di nome, giusto Innocente: «Un paese che non sa accettare / e ogni proprio peccato riconoscere, / è un paese morto, destinato a crollare: / comme sta cava, per poi disconoscere / e a finale accusar d’infamia malonta / chi onestamente, in vero la racconta».
Peraltro, Innocente Crescenzo mi serve per accennare sommariamente alla trama, che (pur vertendo su una storia vera, narrata a Borrelli dai cavatori di tufo della sua terra) oscilla con estrema allusività, e perciò puntando a uno straniamento inesausto, fra il romanzo d’appendice e la sceneggiata. Tutto ruota intorno a Giosafatte Nzamamorte, che, prossimo a morire di un tumore, vuol maritare la figlia Maria delle Papere, che lui ha cresciuto come una sorella, con Vicienzo Mussasciutto, figlio di quel Tummasino Scippasalute che è, come annuncia il suo cognome, «’o malamente» della situazione. Infatti, violenta Maria delle Papere, che è cieca, spacciandosi per Mussasciutto, col quale la ragazza aveva appuntamento. E Innocente Crescenzo, figlio di Nzamamorte, che lo aveva abbandonato, torna dopo una lunga assenza proprio per vendicarsi di Scippasalute, essendo stato da lui violentato come la sorella.

Mimmo Borrelli (Giosafatte Nzamamorte) in un'altra scena de «La cupa»

Mimmo Borrelli (Giosafatte Nzamamorte) in un’altra scena de «La cupa»

In breve, si compie qui un viaggio alla ricerca dell’innocenza perduta. Il coro dei personaggi a un certo punto canta: «Spaccar pietre è un’agonia. / Tienimi dentro, madre mia! / Nella pancia il mio tornare, / senza colpe da espiare». Ma, si capisce, quel viaggio viene, come s’è visto, continuamente interrotto dalle incursioni del Male. E si tramuta, quindi, in un’altrettanto continua oscillazione fra la luce e il buio: per l’appunto lungo il tracciato della «cupa», che, nella parlata bacolese, è la stretta e oscura stradina di campagna, derivante da dilavamenti delle acque, che porta alla cava di tufo. Mentre il termine «vango», che nel testo indica le varie scene, significa nello stesso tempo il vuoto lasciato fra due muri portanti, quello del mondo in cui oggi viviamo e l’intervallo (quasi una pausa per riprender fiato) fra due momenti del viaggio in questione.
Con ciò dico, è ovvio, della polisemanticità, addirittura fantasmagorica, che connota questo spettacolo. Non c’è in esso una sola parola, un solo gesto, un solo movimento e un solo suono che non trasmetta un insieme di significati. E faccio, al riguardo, solo qualche esempio.
Risaltano, nell’impianto scenografico di Luigi Ferrigno, un’enorme sfera e un gigantesco grifone con le ali aperte che a tratti scende dall’alto a sovrastarla. E se la prima rappresenta la Terra e il Mondo, il secondo non solo allude alla Natura che sulla Terra (e su di noi) incombe per salvarla e salvarci o per distruggerla e distruggerci, ma richiama pure la Crocifissione (ossia la rinascita dalla morte del peccato) e, infine, la tremenda scena de «Il silenzio degli innocenti» con le guardie carcerarie scuoiate e, giusto, appese come Cristo.
Lo stesso può dirsi dei costumi di Enzo Pirozzi. Il personaggio che apre lo spettacolo, Ciaccone, appare come il mélange di una mummia e dei morti-vivi con la faccia imbiancata di «Apocalypse Now». Mentre i lunghi pastrani indossati da altri personaggi rimandano non meno evidentemente a «Matrix». E mentre le musiche di Antonio Della Ragione, da lui stesso eseguite dal vivo, arrivano a fondere, tanto per intenderci, la tammurriata, i tintinnii del gamelan (l’orchestra tradizionale balinese) e la virtualità delle tastiere elettroniche.

Da sinistra, Marianna Fontana (Maria delle Papere) e Veronica D'Elia (Rachela) ancora in un momento de «La cupa»

Da sinistra, Marianna Fontana (Maria delle Papere) e Veronica D’Elia (Rachela) ancora in un momento de «La cupa»

L’acme di tanta polisemanticità si tocca, poi, con la sequenza nella quale la corsa della sfera lungo la pedana che attraversa la sala (a mo’, per l’appunto, di una «cupa») viene arrestata con una croce dai cui bracci pendono brandelli di rete da pesca: il Sacro si mescola con la Quotidianità, e insieme – rimandando al plot – parlano della solidarietà fra gli uomini che esisteva quando i pescatori liberi dal proprio lavoro andavano ad aiutare i cavatori a trasportare le pietre fino al mare. È un interscambio capace sinanche di personificare la materia, tanto che Matteo Pagliuccone può dire che «’u ttufo è comme n’ommo».
Con questo mi riferisco anche alla straordinaria efficacia con cui Borrelli fonde incessantemente il passato e il presente, determinando il bruciante rovesciarsi della favola (appunto «fabbula» definisce il suo testo) in una realtà terribile che consiste, poniamo, nei fusti di materiale radioattivo sepolti nella «cupa» e nei bambini ammazzati per venderne gli organi. E in quanto regista, infine, Mimmo Borrelli dà luogo ad alcune delle più potenti invenzioni offerte dal teatro degli ultimi anni.
Mi limito ancora a degli esempi. Vicienzo Mustasciutto scandisce il tempo della tammurriata che accompagna le sue parole d’amore toccando ritmicamente il petto, il ventre e le cosce di Maria delle Papere, col che siamo alla parola che, in sostanza impotente, cerca di trarre legittimità dalla certezza del corpo. E che dire di quella Rachela, la serva di Maria delle Papere, che connota il suo carattere di Cassandra con movimenti da gallinaceo, e persino spargendo piume?
Borrelli mi ha raccontato, al riguardo, dell’oca guardiana che difendeva sua nonna dalle intrusioni degli estranei. Ma ecco un’eclatante dimostrazione di come la pulsione privatissima di un artista possa trasformarsi in qualcosa che appartiene alla cultura del profondo di tutti. Il testo accenna alla Madonna delle Galline, venerata a Pagani, e contemporaneamente alla magia nera. E la gallina è un simbolo dell’oltretomba. Non a caso adotta movimenti da gallinaceo anche Pulcinella, tecnicamente definibile come «maschera anima di morto».
Si comprende perfettamente, allora, il motivo per cui questo spettacolo assume – accarezzato e frustato dalle luci oniriche e gelide di Cesare Accetta – la veste di un rituale primigenio, in cui, sul piano della forma, si rincorrono e accavallano, fra l’altro, le arti marziali, il Nô, il Kabuki (a partire dalla passerella, l’«hanamichi», ovvero «la strada dei fiori», che corre fra gli spettatori), la Commedia dell’Arte, il wayang kulit (il teatro delle ombre indonesiano) e il battere una pietra contro l’altra che accompagnava le antiche lamentazioni funebri in Grecia.
Insomma, non esito a concludere dicendo che «La cupa» è un pozzo senza fondo di sapienza e poesia teatrale. E va da sé che sono gli attori in campo a tirarne su le cose preziose che nasconde nelle sue viscere. Li nomino tutti senza distinzione: accanto allo stesso Borrelli (Nzamamorte), Maurizio Azzurro (Pagliuccone), Dario Barbato (Atamo Pacchiarano), Gaetano Colella (Crescenzo), Veronica D’Elia (Rachela), Renato De Simone (Mussasciutto), Gennaro Di Colandrea (Scippasalute), Paolo Fabozzo (Biaso Settanculo), Marianna Fontana (Maria delle Papere), Enzo Gaito (Pacchione), Geremia Longobardo (Sciarmazappe), Stefano Miglio (Ciaccone) e Autilia Ranieri (Cenzina re Pupella).
Il pubblico? Se perde qualcosa circa la comprensione della trama in tutti i particolari (il testo è stato ridotto da quindicimila ad appena duemilacinquecento versi) e in qualche passaggio (complici anche problemi di acustica) può trovare troppo ostica la lingua misteriosa di Borrelli, in compenso viene travolto da un fascino, carnale ed arcano insieme, che sembra vaporare nello stesso tempo dai «cunti» di Basile e dalle rovine rivestite d’edera dei cimiteri amati da Thomas Gray.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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2 risposte a Alla ricerca dell’innocenza perduta nelle tenebre della «Cupa»

  1. Fulvio Arrichiello scrive:

    Spettacolo meraviglioso. Intenso. Complesso. Denso. Strutturato. Emozionante. Onirico. Ombre, fantasmi, Shakespeare. C’è tutto. Spero Borrelli non si perda e continui. Ne abbiamo bisogno.
    Saluti.
    Fulvio Arrichiello

  2. Enrico Fiore scrive:

    Siamo perfettamente d’accordo.
    Ricambio i saluti.
    Enrico Fiore

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