Luigi De Filippo, la tradizione come identità

Luigi De Filippo

Luigi De Filippo

NAPOLI – Riporto qui il ricordo di Luigi De Filippo pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

La notizia me l’ha comunicata Enzo D’Errico mentre viaggiavo verso Matera. Ed è, naturalmente, una ben triste notizia. Ma ora, per ricordare Luigi De Filippo, abbiamo due scelte: o parliamo di lui come dell’ultimo rappresentante ancora in attività di una grande famiglia del teatro o ne parliamo come di un teatrante «in sé».
Certo, la storia della famiglia De Filippo è un’autentica pietra miliare della vicenda teatrale del Novecento. Però, se adesso la ripercorressi, direi cose ovvie e risapute. Meno ovvio e risaputo è, invece, il ruolo che all’interno di quella storia ha svolto Luigi come figlio di Peppino De Filippo.
Luigi non ha smesso un solo istante, nella vita, di rendere omaggio alla tradizione ineguagliabile incarnata dalla sua famiglia. Tanto è vero che ha chiuso la carriera, nel gennaio scorso, con le recite, nel teatro Parioli Peppino De Filippo, di «Natale in casa Cupiello», il celeberrimo capolavoro dello zio Eduardo.
Così, Luigi ha dimostrato in maniera assolutamente inequivocabile di voler superare, e per l’appunto in nome del teatro, l’antico dissidio fra i due fratelli De Filippo. E sì che ci voleva una fermissima determinazione per superarlo, quel dissidio.
Quando Peppino si ammalò gravemente e si diffusero, dopo che Eduardo era andato a fargli visita in clinica, le voci circa una loro riappacificazione, alla mia domanda se quelle voci fossero fondate Eduardo rispose, gelido: «Io sono stato a trovare un uomo che stava morendo. Ma adesso sta meglio».
Ecco, la riappacificazione che non c’era stata fra quei due grandi quand’erano in vita la realizzò Luigi De Filippo sul palcoscenico, giusto chiudendo la carriera e l’esistenza nel segno di Eduardo. E tanto basti, per tornare a quanto dicevo all’inizio, a dimostrare che oggi, in occasione della sua morte, bisogna ricordare soprattutto il Luigi De Filippo che si è speso per il teatro al di là, molto al di là del fatto di essere il figlio di Peppino.
Il 28 giugno del 2011, si svolse a Roma la serata in cui il teatro Parioli, prima affidato alle cure di Maurizio Costanzo e adesso preso in gestione da Luigi, riprese l’attività col nome Parioli Peppino De Filippo. E Luigi volle che io fossi presente. Ma lo vidi senza particolare entusiasmo, quasi annoiato. E quando glielo feci notare, mi rispose tranquillo: «E che t’aggio ‘a dicere? Io questo l’ho fatto perché sentivo il dovere di farlo, il dovere di portare avanti il teatro ad ogni costo, e in ossequio a mio padre, a mio zio e soprattutto all’identità culturale profonda che loro ci hanno trasmesso. Non ho niente di cui gloriarmi. Te l’aggio ditto, ho fatto solo il mio dovere».
Ecco chi era Luigi De Filippo, a prescindere dalle commedie che scrisse e recitò. E di una sola di esse vale qui la pena di parlare, «La commedia del re buffone e del buffone re». Metteva in scena un rivoluzionario che non ricordava mai la parola «libertà». E toccava a un povero attore di strada fargliela tornare in mente.
Era la riaffermazione di una fede incrollabile nel teatro e nella sua capacità di rendere gli uomini più coscienti della propria dignità. In tal modo Luigi si rendeva degnissimo figlio di Peppino. Perché Peppino seppe darci a sua volta un’indimenticabile lezione sull’orgoglio che dovrebbe sentire l’attore nello svolgere il proprio lavoro.
Una sera recitava al Cilea nell’«Avaro» di Molière. E un gruppo di borghesucci, fraschette e perdigiorno che evidentemente credevano d’essere andati a vedere Pappagone, entrò in ritardo dal bar, chiacchierando e ridendo, mentre Peppino aveva già dato inizio al secondo tempo dello spettacolo. E lui fece chiudere il sipario, uscì alla ribalta e disse: «Non si viene così a teatro. Stiamo recitando una cosa che richiede grande impegno sia a noi attori che a voi spettatori. Se non v’interessava, perché siete venuti? Non ve l’ha detto il medico di venire». E quando, riaperto il sipario e ricominciata la recita, una di quelle fraschette obiettò: «Peppino, siamo un po’ nervosi stasera, eh?», lui, Peppino De Filippo, fece di nuovo chiudere il sipario e di nuovo disse: «Non si viene così a teatro. Se non v’interessava quello che stiamo facendo, potevate fare a meno di venire. Non ve l’ha detto il medico di venire».
Basta. Forse in qualche altra vita ci ritroveremo, Luigi De Filippo, indomito teatrante appassionato, e io, marinaio chissà come e perché capitato nel teatro. E ti prego, Luigi, chiama tuo padre e tuo zio, e fatemi tutti e tre un bel Molière come si deve.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 1/4/2018)

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