Il Teatro Nazionale e la strategia del consenso

Il Mercadante, sede dello Stabile-Teatro Nazionale di Napoli

Il Mercadante, sede dello Stabile-Teatro Nazionale di Napoli

NAPOLI – Riporto la riflessione, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», circa la conferma allo Stabile di Napoli della qualifica di Teatro Nazionale.

L’avevo appena scritto, ci risiamo, che ci risiamo ancora. Come in occasione dei David di Donatello assegnati a un gruppo di napoletani, così, in occasione della conferma allo Stabile nostrano della qualifica di Teatro Nazionale, subito si son levati peani stratosferici sul presunto primato culturale di Napoli.
Ma, secondo il solito (secondo, cioè, la perniciosa abitudine napoletana d’imperniare la discussione, a proposito di qualsiasi oggetto, non sull’oggetto medesimo, bensì su argomenti che con esso hanno rapporti soltanto indiretti), in questi giorni si parla di ciò che la cosiddetta «riforma» ministeriale del teatro ha prodotto in termini di finanziamenti e non di ciò che significa, di fatto, in termini di operatività del teatro sotto il profilo, giusto, della valenza culturale. E di tale aspetto del problema io voglio invece parlare. E lo faccio citando da un lato due addetti ai lavori di rilievo e dall’altro un comune «spettatore pagante».

Massimiliano Civica

Massimiliano Civica

Il primo degli addetti ai lavori in questione è Massimiliano Civica, oggi consulente artistico alla direzione del Metastasio e l’anno scorso vincitore del Premio Ubu come migliore regista per «Un quaderno per l’inverno» del napoletano Armando Pirozzi. Nel 2015 pubblicò sul sito «Doppiozero» un lungo articolo in cui svolgeva, per l’appunto, una dettagliatissima analisi della «riforma» del teatro varata dal governo. E osservava fra l’altro: «I nostri direttori dei Teatri Nazionali saranno costretti a fare “spettacolo”, non “teatro”. Per far quadrare i conti. Se devo tenere uno spettacolo per un altissimo numero di repliche in un teatro “nominalmente” di 1000 posti, non posso prendere rischi, devo ricercare un “successo” a priori, un successo preventivo, cioè messo a preventivo di bilancio. E questo comporterà operazioni di cassetta: vedremo, che so, “Romeo e Giulietta” di Shakespeare con protagonisti i ragazzi di “Amici” di Maria De Filippi! Ogni progetto dovrà uniformarsi alla “formula per un successo preventivo”. E questo, temo, sarà il vademecum produttivo di un Teatro Nazionale, il cui aggettivo “nazionale” rischia di specificarsi in “nazional-popolare”. Avremo, cioè, sempre più spettacoli-eventi “rivoluzionari” in cui un attore della serie tv “Gomorra” interpreterà Riccardo III, guidato da un regista iconoclasta che ambienterà la storia nella sede di un partito di sinistra: quel perfetto mix di “cultura”, ardita provocazione e attualizzazione dei classici che assicurerà un “successo” già assicurato in partenza. Avremo, dunque, un teatro che cerca, ancora prima che il successo, un consenso a priori».

Roberto De Monticelli

Roberto De Monticelli

Dal canto suo, Roberto De Monticelli, il grande critico teatrale del «Corriere della Sera», in un articolo del 1985 fece un rilievo che anticipava le osservazioni di Civica in tutto e per tutto: «Una parola, che non dovrebbe mai ricorrere nei discorsi che si fanno sul teatro, è “consenso”. Consenso, ci spiega il vocabolario, vale “conformità d’intenti, di voleri; accordo”. L’impressione che si riceve dai fatti teatrali del nostro paese in questo momento è che il primo obiettivo di chi opera nel settore sia, appunto, la conquista del consenso, preludio indispensabile al successo. Ma non a quel successo dialettico che è garanzia di crescita culturale in qualsiasi attività di spettacolo: al successo totale, al successo di massa. È chiaro, anzi ovvio, che per ottenere un tale scopo la prima mossa da compiere è quella d’abbassare la qualità del prodotto. Ma non, come si fa in commercio, per venderlo a prezzi più accessibili (e del resto, queste operazioni di livellamento nel campo dello spettacolo, non sembri un paradosso, aumentano i costi anziché diminuirli) ma per renderlo più gradito (anzi, più che gradito, familiare) al maggior numero possibile di spettatori. È la strategia che adottano i mass-media, la televisione in primis. E l’obbligo al successo porta inevitabilmente a dover fare “spettacolo”».
Evidentemente, significa qualcosa il fatto che attraverso i decenni si ripropongano gli stessi concetti. E significa ancora di più il fatto che quei concetti trovino un eco nelle osservazioni del proverbiale uomo della strada. Il signor Giuseppe Gregoretti, che si definisce per l’appunto «uno spettatore pagante», mi ha scritto una lettera in cui dice: «Ho letto di un incontro, di tavoli rotondi e rettangolari simili a tavole da pranzo, di politici, attori, registi, produttori, imprenditori, impresari, di molti definibili “longa manus” di amministratori, etc. E nel leggere, ho notato che tutti rincorrevano i fondi, i contributi, e non apparivano nei loro discorsi specificità per le varie forme di spettacolo, né criteri artistici intorno a proposte e scelte. Prevalevano l’autocelebrazione e la sottile irrisione per i successi altrui. Mi pare programmassero, con l’occhiolino a produzioni e a pacchetti infiocchettati di origine controllatissima, per spartirsi euro: roba da ragionieri complici. Da tempo non assisto a tentativi di innovazione. Martone e Servillo a Napoli, dopo De Filippo, che ogni tanto viene rivisitato, hanno innovato.E poi ci sono stati in tal senso pochi altri tentativi, ignorati volutamente. Lei ha scritto di Moscato, Ruccello, Viviani. Ed ora? Famiglie da mantenere con il placet degli amici sapientemente distribuiti nel puzzle-gioco a incastro di tessere che, completato, serve a dare una bella immagine a me spettatore e una sostanziosa posizione ai giocatori».
È nel quadro di tutto questo che sono cominciate le grandi manovre in vista del dopo De Fusco, il cui mandato di direttore dello Stabile di Napoli scadrà l’anno prossimo. Solo questo giornale ne ha parlato: per dire che qualificatissimi organismi teatrali cittadini (leggi i Teatri Uniti di Toni Servillo e Angelo Curti) vanno facendo discorsi che, ben al di là di un’autocandidatura alla direzione dello Stabile, si pongono in chiave di prospettiva, di evoluzione e di progetto. E, quindi, si schierano contro l’«impasse» descritta da Civica, De Monticelli e Gregoretti.

Mario Martone

Mario Martone

Non a caso, appena è uscito sul «Corriere del Mezzogiorno» il mio intervento sul discorso fatto da Curti a nome di Teatri Uniti, Mario Martone mi ha scritto una lettera da Berlino. E se Martone – uno dei pochi cervelli pensanti del teatro italiano e forse il cervello che ha più chiaro il senso, appunto, della prospettiva e del progetto – ha trovato il tempo di scrivere quella lettera mentre era alle prese con il debutto alla Staatsoper del suo «Falstaff» con la direzione di Barenboim, significa che a certi discorsi attribuisce una rilevanza non trascurabile. Infatti, la sua lettera si conclude così: «Se verrà affidata a Curti e Servillo la direzione dello Stabile di Napoli dopo la direzione di De Fusco sarà una cosa bella e importante, per tutte le ragioni che hai scritto e che condivido». E per quanto riguarda una sua candidatura, su cui pure si sono accese voci innescate dall’allestimento de «Il sindaco del Rione Sanità» da lui realizzato al Nest, Martone mi ha detto a voce: «Al momento è da escludere nella maniera più assoluta. Ho troppi impegni: una regia alla Scala, un nuovo film…». Però ha aggiunto: «Mai dire mai, in ogni caso. Ma è una questione da valutare sulla base di una lunga prospettiva».
Torna in ballo la prospettiva, dunque. E non potrebbe non essere così, perché prospettiva è sinonimo, per l’appunto, di cambiamento. Chiudo con una semplice osservazione circa le trionfalistiche dichiarazioni del presidente e del direttore del nostro Stabile dopo la sua conferma come Teatro Nazionale. Hanno puntato soprattutto su due cose, la scuola e la proiezione internazionale dello Stabile. E io faccio un paragone, poiché ogni giudizio di valore implica un termine di paragone. Nella scuola di Emilia Romagna Teatro insegnano tre dei più grandi registi europei di oggi, Theodoros Terzopoulos, Matthew Lenton e la rumena Gianina Cărbunariu. E si organizzano per gli allievi soggiorni formativi all’estero. Altro che qualche spettacolo prodotto dallo Stabile ospitato in qualche teatro straniero.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 30/3/2018)

P.S. La lettera del Signor Gregoretti è pubblicata per intero nella sezione Commenti.

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4 risposte a Il Teatro Nazionale e la strategia del consenso

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Per quanto riguarda la scuola, inviterei chi dirige il nostro Teatro Stabile a portare a Napoli gli spettacoli messi in scena da Emma Dante con gli allievi del Teatro Biondo di Palermo e a fare raffronti con eventuali lavori realizzati con gli allievi dello Stabile di casa nostra. E restando in ambito partenopeo, “ho detto tutto”.
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Già, l’ho appena scritto: ogni giudizio di valore implica un termine di paragone. Ma è proprio il paragone con quello che fanno gli altri a spaventare i responsabili del Teatro Stabile di Napoli. Non a caso, si guardano bene dall’ospitare, al Mercadante e al San Ferdinando, gli spettacoli allestiti dalle scuole di teatro con una storia più lunga e solida: per esempio, quelli allestiti dalla scuola dello Stabile di Genova, uno Stabile che, pure, ha ottenuto anch’esso, di recente, la qualifica di Teatro Nazionale e, soprattutto, ha da tempo stretti rapporti di coproduzione con lo Stabile di Napoli.
    Enrico Fiore

  3. Raffaele Mastroianni scrive:

    È uno Stabile di mero potere: ha sterilizzato con piccole scritture le voci di opposizione e ha con una politica di marketing svenduto biglietti, spesso neppure utilizzati, per esibire numeri enormi ma virtuali di spettatori. E la sua stessa scuola è una struttura impalpabile, capace di produrre solo incarichi e di formare comparse e mascherine.
    Dirigere un teatro è cosa diversa dal gestire potere e dal fare autopromozione.
    Ai sostenitori di questa struttura rivolgo l’invito a indicare un titolo di uno spettacolo prodotto dallo Stabile di Napoli degno di un “Teatro nazionale” e a citare un qualche risultato formativo della sua scuola.
    Stabile non deve significare che non cade e non si muove.
    Enrico, lei spesso dice che non ci si può accontentare di un attore che pronuncia bene le battute e le accompagna con i gesti appropriati. Ne avessero formati così…
    Raffaele Mastroianni

  4. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Mastroianni,
    sono perfettamente d’accordo con lei. E la cosa più avvilente (l’ho scritto e lo ripeto) è che anche teatranti di valore, in precedenza schierati sul versante del dissenso, abbiano poi accettato di farsi “sterilizzare” in cambio di “piccole scritture”.
    Enrico Fiore

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