I David di Donatello e il limbo del teatro napoletano

Renato Carpentieri con Stefano Jotti in un momento de «Le braci», dato in febbraio alla Galleria Toledo (foto di Cesare Accetta)

Renato Carpentieri con Stefano Jotti in un momento de «Le braci» dato alla Galleria Toledo (foto di Cesare Accetta)

NAPOLI – Riporto la riflessione sullo stato del teatro a Napoli pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Ci risiamo. È bastato che un gruppo di napoletani abbiano vinto i David di Donatello perché immediatamente i soliti imbonitori in servizio permanente effettivo acquartierati nei giornali e nelle televisioni pubbliche e private ripartissero con la solfa di Napoli capitale della cultura italiana. E qui, innanzitutto, occorre mettersi d’accordo sul significato del termine «cultura».
La cultura, evidentemente, non è un certo numero di libri letti o un certo numero di premi vinti. È un sistema di valori condivisi da una comunità, sulla base del quale si concepiscono e si sviluppano progetti a lunga scadenza che quella comunità servano a far crescere e che, in ogni caso, vanno aggiornati in corso d’opera sulla traccia delle urgenze che i mutamenti della società prospettano. Ma niente del genere si verifica a Napoli. A Napoli la cultura è come l’araba fenice di metastasiana memoria: «che vi sia, ciascun lo dice; / dove sia, nessun lo sa». E quindi, ha avuto perfettamente ragione Renato Carpentieri, vincitore del David come migliore attore per il film «La tenerezza», a dichiarare ieri a questo giornale: «Felici dei premi, ma non siamo in paradiso».
Per mio conto, direi che, tutto sommato, siamo all’inferno o, almeno, nel limbo costituito, insieme, dallo sterile rimpianto di un passato glorioso e da un coacervo di frasi fatte consolatorie e autoassolutorie, stucchevole tal quali le canzoni napoletane martoriate dai tristissimi posteggiatori superstiti. E giusto a proposito di Carpentieri, faccio agl’imbonitori di cui sopra qualche semplice domanda: il Carpentieri che ha vinto il David di Donatello non è lo stesso Carpentieri che, splendido protagonista dell’adattamento de «Le braci» di Márai, a febbraio s’è trovato alla Galleria Toledo in compagnia dei quattro gatti di prammatica? e non è lo stesso Carpentieri al quale sono stati negati i fondi per poter proseguire con la meritoria rassegna «Museum» da lui organizzata insieme con Lello Serao? e infine, non è lo stesso Carpentieri che il 6 aprile scorso, come ho ricordato sul mio blog «Controscena.net», ha compiuto quarant’anni di teatro senza che alcuno se ne sia accorto?
Ecco, il teatro. Ad intervalli più o meno regolari, gl’imbonitori suddetti, in veste di tuttologi, se n’escono a sbandierare ai quattro venti che Napoli è la capitale del teatro italiano. Ed io – se mi si permette, appoggiandomi ad oltre mezzo secolo di attività professionale svolta in Italia e all’estero – ribadisco ancora una volta che Napoli è stata capitale del teatro italiano in due sole circostanze: ai tempi preistorici della Commedia dell’Arte e nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi degli Ottanta, nella stagione, intendo, dei vari Neiwiller e appunto Carpentieri, uniti nel Teatro dei Mutamenti, di Martone e di Servillo.

Antonio Latella con Linda Dalisi

Antonio Latella con Linda Dalisi

In quegli anni, Napoli si affermò come il maggiore centro del teatro di ricerca. Tanto è vero che il celeberrimo «Tango glaciale» di Martone venne coprodotto con il Mickery Theatre di Amsterdam, vale a dire il più importante tempio dell’avanguardia teatrale europea: e fu la prima volta, e davvero non a caso, che il Mickery lavorò insieme con un gruppo italiano. Eppure, anche allora, qualcuno (è facile capire chi) obiettò, testualmente, che Martone e Servillo erano «imbroglioni che non facevano teatro» e che io ero loro complice perché «gli tenevo mano» dalle pagine di «Paese Sera». E oggi della sperimentazione a Napoli non v’è più traccia, non è napoletana alcuna delle formazioni maggiori del teatro di ricerca, né di quelle storiche (che so, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa o Motus) né di quelle nate più recentemente (da Babilonia Teatri a Ricci/Forte e ad Anagoor, quest’anno insignita del Leone d’Argento dalla Biennale di Venezia).
Appunto, la Biennale Teatro. È diretta da quell’Antonio Latella la cui vicenda dovrebbe pesare come il proverbiale macigno sulla coscienza di quanti sono responsabili della situazione teatrale a Napoli. Latella, nato a Castellammare di Stabia, è uno dei maggiori talenti della scena europea. Firma regie dappertutto, da Novosibirsk, addirittura, a Vienna. E vari anni fa decise di andarsene a vivere a Berlino. Ma, poi, accettò di venire a Napoli come direttore del Teatro Nuovo gestito da Igina Di Napoli e Angelo Montella.
Accettò anche in seguito a mie pressioni. Infatti fui presente alla stipula dell’accordo fra lui e la Di Napoli, che avvenne, a novembre del 2009, nel bar della Schauspielhaus di Colonia in occasione de «La metamorfosi e altri racconti», lo spettacolo che Latella dedicò a Kafka. Ma sappiamo che cosa capitò in seguito. Latella fu costretto a dimettersi dall’incarico di direttore artistico del Nuovo dopo meno di un anno. E il Nuovo, che era stato un autentico faro per la più avanzata ricerca teatrale italiana, si trasformò, con la gestione di Alfredo Balsamo, in un semplice contenitore di teatro di consumo, sia pure a un livello di qualità discreto.
Ebbene, Latella, fuggito da Napoli, fu ideatore e realizzatore della più importante manifestazione di teatro innovativo che ci sia stata in Italia negli ultimi decenni: il progetto «Santa Estasi – Atridi: otto ritratti di famiglia» varato nell’ambito del Corso di Alta Formazione della Fondazione Emilia Romagna Teatro.
Attraverso provini a cui parteciparono 535 (cinquecentotrentacinque) candidati, furono scelti sedici attori e sette drammaturghi, i quali ultimi – con l’assistenza di tre «tutor», lo stesso Latella e i suoi due drammaturghi stabili, Linda Dalisi e Federico Bellini – si fecero carico ciascuno dell’adattamento di una delle tragedie che giusto all’orrenda saga iniziata da Atreo si riferiscono. E ne vennero fuori otto (l’ottavo era «Crisòtemi», firmato dalla stessa Dalisi) spettacoli che, tutti con la regia di Latella, si replicarono nel Teatro delle Passioni di Modena fra il maggio e il giugno del 2016.

Una scena di «Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia» (foto di Brunella Giolivo)

Una scena di «Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia» (foto di Brunella Giolivo)

Ancora una volta, perciò, mi rivolgo agl’imbonitori nostrani in servizio permanente effettivo: a Napoli è mai stato realizzato (o s’ipotizza che possa essere realizzato) qualcosa del genere? E poiché parliamo di didattica, che cosa fa la scuola di teatro del nostro Stabile, uno Stabile che, pur non avendo tuttora dato a quella scuola una sede, si vanta ad ogni pie’ sospinto della qualifica di Teatro Nazionale, peraltro ottenuta, ricordiamolo, con il punteggio più basso rispetto a quello degli altri concorrenti e con uno zero eclatante per ciò che attiene all’innovazione?
Finora, i suoi allievi si sono materializzati appena come comparse in alcuni degli spettacoli prodotti dallo Stabile di Napoli medesimo. Mentre, per fare solo un esempio, nel 2016 la scuola di teatro dello Stabile di Genova affidò ai suoi allievi un intero spettacolo: e nemmeno uno spettacolo facile, ma l’allestimento de «La dodicesima notte» di Shakespeare.
Invece, circa l’attività svolta dalla scuola di teatro dello Stabile nostrano, mi limito a segnalare quanto si evince da un video pubblicitario diffuso dal suo ufficio stampa: si vedono dei ragazzi e delle ragazze impegnati in esercizi corporei e si sente una voce che li informa che «il dramma è innanzitutto azione». E di questo passo, voi lo capite, a quei ragazzi e a quelle ragazze si prospetta, giusto sul terreno dell’innovazione, un avvenire luminosissimo.
Molto altro ci sarebbe da dire sulla precaria condizione del teatro a Napoli. Tanto per fare un altro esempio, Matthew Lenton, il regista scozzese che nel 2009 portò al Napoli Teatro Festival Italia uno spettacolo importante come «Interiors», da noi non ha lasciato traccia, mentre, guarda un po’, adesso insegna recitazione in lingua inglese nell’ambito del processo di internazionalizzazione in atto nella scuola della citata Fondazione Emilia Romagna Teatro.
Sono dati di fatto, quelli che ho offerto come materia di riflessione, non mie convinzioni. Possiamo allora scegliere la conclusione: o ripetere con Amleto che «il resto è silenzio» o, più modestamente, ricordare che c’è una certa cosa che il Banco di Napoli, insieme con le tabacchiere di legno, non è disposto ad impegnare.

                                                                                                                                          Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 24/3/2018)

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2 risposte a I David di Donatello e il limbo del teatro napoletano

  1. Giuseppe Gregoretti scrive:

    Sono uno spettatore pagante da anni, dottor Fiore. Leggevo le note critiche da lei pubblicate su “Il Mattino”. Ora la leggo sul “Corriere del Mezzogiorno” e mi congratulo per la qualità dei suoi scritti.
    Le cronache di questi giorni mi hanno rattristato. Amo il teatro tanto quanto il cinema, pur trattandosi di due realtà diverse. Ho letto di un incontro, di tavoli rotondi e rettangolari simili a tavole da pranzo, di politici, attori, registi, produttori, imprenditori, impresari, di molti definibili “longa manus” di amministratori, etc. E nel leggere, ho notato che tutti rincorrevano i fondi, i contributi, e non apparivano nei loro discorsi specificità per le varie forme di spettacolo, né criteri artistici intorno a proposte e scelte.
    Prevalevano l’autocelebrazione e la sottile irrisione per i successi altrui. Mi pare programmassero, con l’occhiolino a produzioni e a pacchetti infiocchettati di origine controllatissima, per spartirsi euro: roba da ragionieri complici. Da tempo non assisto a tentativi di innovazione. Martone e Servillo a Napoli, dopo De Filippo, che ogni tanto viene rivisitato, hanno innovato. E poi ci sono stati in tal senso pochi altri tentativi, ignorati volutamente.
    Lei ha scritto di Moscato, Ruccello, Viviani. Ed ora? Famiglie da mantenere con il placet degli amici sapientemente distribuiti nel puzzle-gioco a incastro di tessere che, completato, serve a dare una bella immagine a me spettatore e una sostanziosa posizione ai giocatori.
    Lei sa molto della Rivoluzione dei Garofani. A me pare che qui i crisantemi che credono di essere gigli sono morti e non lo sanno. Dai diamanti non nasce niente. Dai soldi pubblici distribuiti al sistema teatrale meno che niente per lo spettacolo e per chi ama lo spettacolo.
    Dal letame nascono i fiori, diceva De André. Questi teatranti nostrani ormai vecchi, che lodano se stessi ed i loro protetti, chiudono gli spazi, barricati in recinti provinciali. Spero che in Campania nascano fiori freschi e autentici per il mondo dello spettacolo. Lei li aiuti a sbocciare, perché lei sa guardare lontano.
    Così continuando, i nostri imitatori dei cavalieri della tavola rotonda si divideranno risorse pubbliche con la voracità a loro connaturata, e intanto non si accorgono che il mondo cambia e che sono già archiviati nell’animo di noi spettatori, che sappiamo che sta per venire la primavera nonostante la resistenza dell’inverno che vuole sopravvivere per tirare a campare. Il vecchio Vescovo in un venerdì di Quaresima battezzò pesce la carne, pur di mangiare. Oggi qualche lucignolo fumigante è chiamato buio, pur di sopravvivere, da parte dei padroncini del carrozzone. Eppure il vento soffia ancora!
    Giuseppe Gregoretti

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Gregoretti,
    La ringrazio, naturalmente, per la stima e la fedeltà che mi dimostra. Ma La ringrazio ancora di più per questo Suo commento. Soprattutto perché Lei mette il dito in una piaga particolarmente infetta e dolorosa: quella dell’omertà, del compromesso, dell’ipocrisia e della sudditanza nei confronti del potere che regnano fra i teatranti napoletani.
    Tutti, o quasi, si son precipitati a salire sul carro del vincitore, ossia del direttore dello Stabile di Napoli, Luca De Fusco; o, quanto meno, non hanno disdegnato di aprire la bocca e d’ingoiare le polpette piccole e grandi che lui va distribuendo per creare intorno a sé il consenso acritico che gli serve per mantenersi in sella. Le hanno ingoiate, quelle polpette, anche coloro i quali, in passato, inviavano a questo sito commenti fiammeggianti contro il miserevole stato in cui versa il teatro a Napoli e i responsabili di questa situazione, che individuavano, appunto, in De Fusco principalmente. E al riguardo Le cito un episodio recente.
    Un regista nostrano m’inviò qualche settimana fa una mail con cui m’invitava a vedere un suo spettacolo, prodotto dallo Stabile di Napoli, e mi chiedeva se lo Stabile medesimo avesse provveduto a mandarmene il testo. E quando gli risposi: no, il “vostro” Stabile a questo non ha provveduto, si offese (leggi, fece finta di offendersi) per l’aggettivo “vostro” che avevo adoperato e, in un’altra mail, si dichiarò totalmente e fieramente indipendente e distante dallo Stabile e da De Fusco. Però, ecco il punto, contestualmente scrisse: “Non Vi autorizzo a usare questa mail per scopi pubblici. Quindi se volete leggerla ed eventualmente commentarla “solo” privatamente, bene. Altrimenti, cestinatela ora!”. Perché, è ovvio, la sua indipendenza non arriva fino al punto di mettere a rischio la possibilità d’ingoiare altre polpette.
    Ora, in ossequio alla proverbiale carità di patria, io non dico chi è quel regista. Mi limito, sommessamente, a constatare quanto tutto ciò sia triste ed avvilente.
    Voglia gradire i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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