Se un’attrice si fonde con il fantasma di un’altra attrice

Un momento di «Ave Maria», lo spettacolo di Eugenio Barba presentato al Nest (le foto che lo illustrano sono di Carmine Luino)

Un momento di «Ave Maria», lo spettacolo di Eugenio Barba presentato al Nest
(le foto che lo illustrano sono di Carmine Luino)

NAPOLI – Anche per «Ave Maria», lo spettacolo di Eugenio Barba che l’Odin Teatret ha presentato per una sola sera al Nest, vale quanto scrissi a proposito de «Il Castello di Holstebro II» e di «Bianca come il gelsomino», i due spettacoli che Barba presentò, alla Galleria Toledo, l’uno nell’aprile e l’altro nel novembre del 2002: rispetto all’intento centrale di tutta l’attività teorica e pratica di Barba, quello di dar luogo, col teatro, a un autentico rito d’introspezione collettiva, constatiamo qui il ripiegamento su una dimensione individuale e intimistica.
Del resto, la situazione che s’accampa in «Ave Maria» somiglia non poco a quella che proponeva «Il Castello di Holstebro II»: in cui una ragazza interagiva con Mister Peanut, il pupazzo con un teschio al posto della testa ch’è uno dei simboli dell’Odin, e da gigantesco ch’era all’inizio se lo ritrovava fra le braccia, alla fine, piccolo come un neonato.
Si alludeva, è ovvio, al ciclo interminabile e immutabile che dalla vita conduce alla morte e dalla morte riconduce alla vita. E tanto, più o meno, si ripete in «Ave Maria»: con la differenza che, stavolta, Mister Peanut incarna María Cánepa, un’attrice cilena con la quale la protagonista dello spettacolo Julia Varley, feticcio di Barba, ebbe amicizia e incontri di lavoro. Infatti, il sottotitolo di «Ave Maria» recita, per l’appunto: «La Morte si sente sola. Cerimonia per l’attrice María Cánepa».

Eugenio Barba

Eugenio Barba

In breve, si mette in atto un vero e proprio transfert. E lo dichiara esplicitamente il passo seguente del testo, firmato dallo stesso Barba: «Vi sono momenti in cui mi sento divisa in due. Una presenza estranea si muove dentro di me come se avessi una gemella, come se fossimo un corpo solo. Questa sorella sepolta in me è María». Mentre, a sottolineare l’interscambio fra la vita e la morte, interviene il passo immediatamente successivo: «María è la ragnatela e io sono la mosca. María va e viene tra quello che è e quello che non è. Sparpaglia pensieri nella mia mente, semina parole nella mia bocca, pensa con i miei occhi. La vedo, la tocco, l’abbraccio. E María svanisce. María, fa sentire la tua voce. Dì qualcosa, María. Fai la persona seria».
Così, la Varley compare in scena indossando, contemporaneamente, la maschera di Mister Peanut e il cappello a falde larghe che appartiene a María Cánepa. E dopo essersi tolto quel cappello e averlo messo sulla testa del manichino che, sempre in forma di Mister Peanuts, rappresenta l’attrice cilena, si perde in una pantomima giocosa sulla musica di Miles Davis e va ad appendere a una corda, come panni stesi ad asciugare, da un lato una mutanda da uomo ornata con teschi e dall’altro un vestitino da bambino. E a quella corda finirà appeso anche il bambolotto che la Varley tirerà fuori da una piccola bara bianca.
Poi, toltasi la maschera di Mister Peanut, l’attrice, con la faccia coperta da un velo, procederà ad evocare – sulla traccia della voce registrata della Cánepa, che lei doppia in italiano, e di lettere che ricevette dal suo secondo marito, Juan Cuevas – particolari della vita della collega cilena che vanno dalle esperienze professionali all’Alzheimer che la colpì negli ultimi mesi di vita. E infine, ripresa la maschera di Mister Peanut e vestita di un classico abito da sposa bianco (nelle culture ancestrali, lo sappiamo, il bianco è per l’appunto il colore della morte), tirerà fuori dalla piccola bara lo stesso bambolotto di prima, ma stavolta ridotto a uno scheletro.

Julia Varley in un altro momento di «Ave Maria»

Julia Varley in un altro momento di «Ave Maria»

La conclusione, manco a dirlo, è nel segno dell’«Ave Maria» di Schubert. E a questo punto si sarà capito che, a prescindere dall’indubbia bravura di Julia Varley, pesa sullo spettacolo un certo manierismo, ch’è frutto di una palese autoreferenzialità. Per fare solo un esempio, il vestitino da bambino è lo stesso che compariva in uno spettacolo precedente di Barba, «Ego Faust». E peraltro, non credo che ieri sera la gran parte del pubblico del Nest abbia colto tutti i simboli e i messaggi disseminati dal regista brindisino, ignorando chi fosse María Cánepa (io stesso lo ignoravo) e, per giunta, non riuscendo, stanti quella maschera e quel velo, a discernere tutte le parole pronunciate dalla Varley.
Personalmente sono stato avvantaggiato dal libretto sullo spettacolo, distribuito in sala da Barba in persona a taluni cronisti e che io, prima di entrare, avevo acquistato per tre euro da una ragazza portoghese dell’Alentejo che lavora con l’Odin Teatret. Con lei ho parlato della mia partecipazione alla Rivoluzione dei Garofani, della mia vicinanza ad Álvaro Cunhal, il leggendario segretario del Partito Comunista Portoghese, e del mio incontro con Josè Afonso, la cui canzone «Grândola Vila Morena», trasmessa dalla radio, diede il via a quella Rivoluzione.
La ragazza portoghese dell’Alentejo non parla italiano. Ma sa e ricorda. E quando ho finito di raccontare, è riuscita a trovare una parola in italiano: «importante». Per mio conto è stata l’unica cosa significativa della serata.

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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