«Il giardino dei ciliegi», ovvero la felicità in comodato d’uso

Giuliano e Annalisa Bianchi in un momento de «Il giardino dei ciliegi. Trent'anni di felicità in comodato d'uso» (le foto che illustrano l'articolo sono di Luca Del Pia)

Giuliano e Annalisa Bianchi in un momento de «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)

BOLOGNA – Si può ripetere – oggi, in una città italiana di oggi – la storia che Cechov racconta ne «Il giardino dei ciliegi»? Certo, si può ripetere. E in che termini possa accadere ce lo spiega «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso», lo spettacolo, prodotto da Emilia Romagna Teatro, che la compagnia bolognese Kepler-452 presenta all’Arena del Sole fino a sabato 30.
Ma, prima di affrontare l’analisi dello spettacolo, mi sembra opportuno dire qualcosa sulla compagnia che l’ha realizzato: per fornire a chi non conosce la Kepler-452 informazioni che, nello stesso tempo, costituiscono anche un’anticipazione circa i contenuti dell’allestimento e la chiave per inquadrarli meglio.
La Kepler-452 venne fondata nel 2015, giusto a Bologna, da Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello. E così i tre sintetizzano la poetica che hanno adottato: «Il nostro lavoro si incardina su due assi principali: da una parte l’urgenza di rivolgerci ad un pubblico preciso (quello, per intenderci, poco incline a entrare nelle sale teatrali) e dall’altra la scelta di indagare e mettere in scena le vite e le biografie di non professionisti (o “experts of everyday life”, come li definiscono i Rimini Protokoll), magnificandone le identità».
Non a caso, dunque, le due prime produzioni della Kepler-452 sono state «La rivoluzione è facile se sai COME farla», nata in collaborazione con Lo Stato Sociale, la band che ha trasformato radicalmente il mondo dell’«indie rock» italiano, e «La rivoluzione è facile se sai CON CHI farla», in cui si tentava – dicono Borghesi, Baraldi e la Aiello – «di raccontare prospettive rivoluzionarie contemporanee attraverso i corpi e le voci di rivoluzionari incontrati nel corso delle ricerche». Ed eccoci, adesso, a questo «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso», che, coerentemente, assume come protagonisti per l’appunto due degli «experts of everyday life» a cui si riferisce il citato gruppo teatrale tedesco.
Ora il «giardino dei ciliegi» è contrassegnato dal «codice inventario C 927». E la Ljuba e il Gaev di oggi si chiamano Annalisa e Giuliano Bianchi.

Lodovico Guenzi

Lodovico Guenzi

Per trent’anni hanno vissuto in una casa colonica della periferia di Bologna che il Comune gli aveva concesso, giusto, in comodato d’uso gratuito. E fecero di quella dimora il regno, fantastico e concreto insieme, dell’innocenza e della fratellanza: vi trovarono ospitalità, fra l’altro, pastori tedeschi, cavalli, mucche, gatti, falchi, volpi del deserto, una lumaca gigante, un boa constrictor, un lupo, un pappagallo, un leopardo, un babbuino, una famiglia rom e persino alcuni detenuti ex 41-bis, con i quali si mangiava insieme perché, dice il testo, «gli uomini devono mangiare con gli uomini». E non avevano nomi, gli animali: il pappagallo si chiamava semplicemente Ara, come la sua specie, e la gatta semplicemente Micia.
Insomma, era la natura a stabilire le leggi condivise di quel regno, che nemmeno concepiva aberrazioni come il classismo e il razzismo. Sicché ben a ragione Annalisa Bianchi poteva far sua la battuta della Ljuba di Cechov: «Oh! Infanzia, o purezza mia! Dormivo in questa stanza, di qui guardavo il giardino, e tutte le mattine la felicità si svegliava con me!».
Ma una mattina di settembre del 2015 arrivò a lei e a Giuliano un telegramma con cui il Comune gl’intimava lo sfratto. Il nuovo Lopachin si chiamava (e si chiama) FICO (Fabbrica Italiana Contadina), il parco a tema agroalimentare, il più grande del mondo, aperto proprio di fronte al loro «giardino dei ciliegi». E Annalisa e Giuliano Bianchi finirono all’ultimo piano di un palazzone, anch’esso in periferia, pomposamente denominato Residence Galaxy e che ospitava centinaia di persone sgomberate dalle proprie case: «il posto», commenta Giuliano, «dove sbattono i poveri e gli chiedono anche 200 euro al mese».
Il sogno s’era rattrappito, il «giardino dei ciliegi» di Annalisa e Giuliano si ridusse a «una piccola grondaia piena zeppa di piante di ogni tipo: officinali, da frutta, erbacce, violette»: «la sintesi di un giardino», «tutto quello che c’era prima condensato in una grondaia».

Nicola Borghesi

Nicola Borghesi

Inutile aggiungere, a questo punto, che lo spettacolo consiste nella messinscena del corto circuito e dell’interscambio – ad un tempo significanti, affascinanti e urticanti – fra il testo di Cechov, che racconta una storia malinconica di possidenti dell’Ottocento, e quello di Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello, che racconta la storia, analoga ma bruciante e anche risentita, di emarginati dei nostri giorni. E sono un corto circuito e un interscambio che sottolineano come meglio non si sarebbe potuto quello che ho sempre ritenuto il tema centrale della drammaturgia cechoviana: la vita ridotta a un limbo schiacciato fra il rimpianto di un passato che non può tornare e l’attesa di un futuro vago in cui, del resto, non si crede nemmeno più.
In proposito «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso» offre una battuta che non esito a collocare fra le più belle e intelligenti che abbia sentito negli ultimi anni: «Le feste che mette in scena Cechov sono feste tristissime, in cui nessuno si diverte. Tutti cercano di divertirsi ma nessuno ci riesce. Una sorta di enorme sforzo collettivo completamente inutile. Avete presenti tutti i capodanni della vostra vita? In questo clima sospeso sono tutti a disagio, tutti un po’ in prestito, tutti tesi, coi nervi a pezzi. Una condizione comprensibile, no? Un po’ come quegli spettacoli in cui a un certo punto gli spettatori vengono obbligati a fare qualcosa sul palco».
Eccolo, lo scatto decisivo de «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso». Al di là di Cechov, siamo finiti tutti, come Annalisa e Giuliano Bianchi, nel palazzone pomposamente denominato Residence Galaxy, anche se il Residence Galaxy, quello vero, è stato chiuso l’anno scorso perché fatiscente.

Annalisa Bianchi e Paola Aiello in un altro momento dello spettacolo

Annalisa Bianchi e Paola Aiello in un altro momento dello spettacolo

S’intende, poi, che lo spettacolo in sé, affidato alla regia di Borghesi, aderisce ai suoi contenuti assumendo forme nello stesso tempo rigorose e aperte: nel senso che, ad intervalli più o meno regolari, smette di essere una recita per essere e basta.
Così, alla scena tutto sommato realistica di Letizia Calori, che riproduce la casa colonica in cui vissero Annalisa e Giuliano per mezzo di un babelico bric-à-brac (ci sono, fra l’altro, damigiane di varie dimensioni, un ventilatore, sedie spaiate, un pentolone, vari abat-jours, un divano, il tamburo e il piatto di una batteria, un materasso e, naturalmente, un’infinità di gabbie per animali vuote), corrisponde lo straniamento, insieme disperato ed ilare, de «La vita è bella», il Leitmotiv del film/favola di Benigni, che accompagna il commento sul nostro disagio. E in proposito, l’acme viene raggiunto quando si sente l’attacco di «Una vita in vacanza», la canzone de Lo Stato Sociale giunta seconda al Festival di Sanremo, ma Ludovico Guenzi, la star di quel gruppo, non la canta: se ne sta lì al proscenio, come se, per l’appunto, dovesse cantare, e invece rimane muto, la canzone l’ascoltiamo registrata.
È un affondo implacabile contro lo spettacolo, contro l’attesa dello spettacolo, contro la prevedibilità dello spettacolo, contro la possibilità di acquietarsi in quella prevedibilità. E fa il paio con la sequenza in cui Annalisa e Giuliano scendono dal palcoscenico e per un certo periodo rimangono seduti in platea su due sedie affiancate, a guardare una rappresentazione che a loro si riferisce ma in nessun momento riesce – proprio come le pellicce «russe» che indossano ogni tanto sui panni di tutti i giorni – a impedire che siano e appaiano se stessi.
Già, la forza e la tenerezza di questi due attori/non attori stanno nello stupore, e persino nel fastidio, con cui, sempre, si aggirano su quelle tavole con l’aria di chiedersi che cosa ci stanno a fare. Mentre, a giustificare la loro presenza e a trasformarla in testimonianza, provvedono l’impegno e la bravura degli attori/attori: gli stessi Paola Aiello e Nicola Borghesi affiancati da uno straordinario Lodovico Guenzi/Lopachin.
Basta. Io non so fare a «Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso» elogio migliore del dire che, uscendo dal teatro, ho pensato a due cose: al dolce consiglio di Khayyâm, «Mentre vivi, bevi», e al grido rabbioso e amorevole che in una lontana sera Leo de Berardinis, piegato in due dal dolore, lanciò al Parco Virgiliano di Napoli: «Vivete, vivete, coglioni!».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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