Se lo spettro di Banquo frantuma sotto i piedi il pane «carasau»

Un momento di «Macbettu», presentato al Politeama da Sardegna Teatro (le foto dello spettacolo sono di Alessandro Serra)

Un momento di «Macbettu», presentato al Politeama da Sardegna Teatro
(le foto dello spettacolo sono di Alessandro Serra)

NAPOLI – «Moriti, moriti, curza candela! Sa bida est pezzi un’umbra chi caminat, unu poveru attore chi s’ispàzata e s’assùcat pro cuss’ora in issèna e non pùdit ne fràcata, un’istoria contada da unu ballalòi, prenu de fùria e abbolottu, chi non sinnìficat… nudda».
È la celeberrima battuta di Macbeth così come – nella traduzione in «limba» (lingua) sarda ad opera di Giovanni Carroni – l’ascoltiamo in «Macbettu», l’allestimento di Alessandro Serra, Premio Ubu 2017 quale miglior spettacolo dell’anno, che Sardegna Teatro ha presentato al Politeama, purtroppo per una sola sera, nell’ambito della stagione del Teatro Area Nord. E perfettamente, al di là di ogni mediazione intellettualistica o artificio folcloristico, la voce cupa di quella «limba» s’accorda con l’atmosfera oppressa e opprimente che regna nel sanguinoso capolavoro shakespeariano.
Dico, con ciò, del principale fra i non pochi e non trascurabili meriti di uno spettacolo che risulta, in pari tempo, intelligente e affascinante, rigoroso ed agile, pietoso e crudele. A partire dal fatto che, come sappiamo (e giusta l’altra battuta celeberrima: «Macbeth ha ucciso il sonno»), tutti i delitti di cui qui si narra vengono compiuti di notte.
Dunque, fa benissimo Serra (suoi la regia, le scene, le luci e i costumi) a calare la rappresentazione in una penombra perenne, sempre sul ciglio del buio e solo sporadicamente rotta da inattesi e gelidi chiarori, quasi i soprassalti di una coscienza malata. E non meno pertinente è la scelta di basare l’intero spettacolo sull’insieme dei segni, visivi e sonori, riferiti alle più complesse e profonde tradizioni culturali sarde, in particolare quelle veicolate dai carnevali: poiché il «Macbeth» è fondato, per l’appunto, sulle nevrosi innescate dallo scontro (o, se volete, dall’interscambio) fra l’esterno (la storia o, semplicemente, la società) e l’interno (la psicologia dei singoli forgiata da pulsioni ancestrali).
Infatti, e sappiamo anche questo, nella tragedia in questione s’intrecciano – in un groviglio spesso inestricabile – vicende collettive (giusto il tributo che il Bardo pagò alle cronache di Holinshed) e risvolti mitici (le tre Streghe, le Fatidiche Sorelle, sono evidentemente una riedizione delle Parche oltre che una rivisitazione delle Norne scandinave): le une, le vicende collettive, e gli altri, i risvolti mitici, tradotti da Shakespeare in corrusche proiezioni dell’inconscio lacerato dell’uomo.

Le tre Streghe a testa in giù in un altro momento di «Macbettu»

Le tre Streghe a testa in giù in un altro momento di «Macbettu»

Ecco, allora, che l’apparizione delle tre Streghe (interpretate da uomini così come Lady Macbeth, a ricalcare gli usi teatrali dell’epoca elisabettiana ma anche, e soprattutto, a cancellare ogni superstite barlume della proverbiale sentimentalità incarnata per l’appunto dalla donna) assume le forme e i ritmi di una pantomima, persino giocosa, dichiaratamente apparentata alla danza dei mamuthones, le maschere demoniache del carnevale di Mamoiada. E del resto, più tardi quelle Streghe le vedremo dietro un tavolo a testa in giù, proprio come se fossero indirizzate verso gl’inferi.
Si colloca in tale alveo, poi, anche la caratterizzazione del Portiere. Questo personaggio, che compare nella terza scena del secondo atto, significa ovviamente la soglia: fra la notte (metafora della disperazione ontologica di Macbeth) e il giorno (a sua volta metafora della speranza che vorrebbe riaffacciarsi, subito dopo l’assassinio di Duncan, nelle persone di Lennox e Macduff: il quale ultimo, sì, alla fine ucciderà Macbeth ma, ciò nonostante, viene anche lui arruolato dallo stesso Portiere nell’esercito di quelli, tutti noi, che percorrono «il fiorito sentiero» della vita solo per arrivare al «falò eterno»). E non a caso diventa, in «Macbettu», un ubriaco perso: giacché Serra, molto acutamente, ne fa il tramite fra l’imperio della realtà e il sonno della ragione.
Per questo, d’altra parte, durante l’incontro con le Streghe Macbeth e Banquo restano a tratti immobili, come paralizzati: è lo scarto fra la percezione della vita e la fuga dalla stessa verso la dimensione della morte, morale prima e fisica poi. E di tanto costituisce l’acme la sequenza in cui lo spettro di Banquo si allontana camminando lentamente sul tavolo del banchetto voluto da Macbeth. L’unico suono che commenta quei passi è il crepitio del pane carasau mandato in frantumi dai piedi del fantasma. E si poteva rendere meglio, e in maniera più lancinante, la negazione dello statuto di uomo, identificato, nella circostanza, con l’elemento primario e concretissimo dell’alimentazione?
Il ricorso ai connotati più risaputi della Sardegna trova infine un altro e altrettanto significante sbocco nella sequenza relativa alla foresta di Birnam che «muove» contro Macbeth: se nel testo di Shakespeare i soldati di Malcolm e Macduff avanzano facendosi schermo di un ramo d’albero, qui nascondono la faccia dietro pezzi di sughero. E dunque c’è pure autoironia, in questo bellissimo e sempre motivato spettacolo.
Non mi resta, per chiudere, che citare tutti i suoi eccellenti interpreti: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, lo stesso Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu e Felice Montervino. Peccato che non li si possa applaudire anche dopo ieri sera. Ma, in ogni caso, va dato pieno merito, al Teatro Area Nord, di aver consentito al pubblico napoletano questo sia pur fuggevole incontro con «Macbettu». È un segnale, piccolo ma prezioso, di amore per il proprio lavoro e di dedizione alle sempre più neglette istanze della cultura.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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4 risposte a Se lo spettro di Banquo frantuma sotto i piedi il pane «carasau»

  1. Dely Zinno scrive:

    Carissimo dottor Fiore,
    ci siamo consolate!!!
    Diceva Peppino “Ho detto tutto”.
    Saluti cari da Dely Zinno (Lady Liquirizia) e Barbara (l’emigrante toscana)

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie, care amiche. Che farei, in occasione di “certi” spettacoli (per fortuna ci sono le eccezioni, come per l’appunto “Macbettu”), senza il sollievo, alla “prima”, dei vostri generi di conforto e del vostro sorriso?
    Vi ricambio i saluti.
    Enrico Fiore

  3. Lello Serao scrive:

    Caro Enrico,
    grazie per la bella e analitica recensione, e grazie per aver riconosciuto i meriti del nostro lavoro, che continua ad emozionarci nonostante gli anni trascorsi in trincea e la quotidiana precarietà a cui ci si costringe.
    Un abbraccio affettuoso.
    Lello Serao

  4. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, caro Lello.
    L’importante è insistere, senza restare prigionieri del gioco al ribasso a cui molti (troppi) teatranti si adeguano.
    Ti ricambio l’abbraccio con altrettanto affetto.
    Enrico Fiore

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