Quella cornice vuota che racchiudeva un mondo

Renato Carpentieri e Stefano Jotti in un momento de «Le braci», in scena alla Galleria Toledo (le foto che illustrano l'articolo sono di Cesare Accetta)

Renato Carpentieri e Stefano Jotti in un momento de «Le braci», in scena alla Galleria Toledo
(le foto che illustrano l’articolo sono di Cesare Accetta)

NAPOLI – Mentre alla Galleria Toledo assistevo a «Le braci», l’adattamento del romanzo di Márai ad opera di Fulvio Calise, ho pensato al saggio di Cacciari «Dallo Steinhof».
Lo Steinhof è la collina di Vienna su cui sorgeva l’ospedale psichiatrico. Da quella collina, dice Cacciari, «lo sguardo abbraccia il paesaggio degli uomini postumi», quelli (la definizione è di Nietzsche) che «”praticano” la società ma insieme fanno i fantasmi». E per I’appunto «uomini postumi» sono i due personaggi messi in campo da Márai: Henrik, che ha fatto carriera nell’esercito fino a diventare generale, e Konrad, il suo amico fraterno che torna dopo quarant’anni di assenza.
È la sera del 15 agosto 1940. In un castello ai piedi dei Carpazi, i due vecchi s’incontrano perché Konrad possa finalmente rispondere alle domande che Henrik s’è posto senza tregua in tutto quel tempo: domande che si riferiscono, in sostanza, al momento in cui Konrad pensò di uccidere Henrik e alla successiva scoperta da parte di quest’ultimo che Konrad era diventato l’amante di sua moglie Krisztina.
Le due domande che Henrik rivolge a Konrad sono: «Krisztina era al corrente del fatto che mi volevi uccidere?» e, verso la fine, «Si può e soprattutto si deve restare fedeli alla passione che ci possiede, anche se questo significa distruggere la propria felicità e quella degli altri?».

Stefano Jotti è Konrad

Stefano Jotti è Konrad

Alla seconda domanda Konrad risponde: «Perché me lo chiedi? Sai che è così». E su queste parole si chiude l’incontro dei due vecchi, che, naturalmente, non si rivedranno più. Ma s’intende che la trama del romanzo di Márai, pubblicato nel 1942 col titolo originale «Le candele bruciano fino in fondo», è un puro pretesto. Qui si affronta, in realtà, la crisi epocale che seguì il crollo dell’impero austroungarico, ovvero della Mitteleuropa, dopo la Grande Guerra. E risulta piuttosto evidente, allora, che Henrik e Konrad rappresentano le due facce della stessa medaglia, i due atteggiamenti opposti, e tuttavia complementari, che un’unica anima, giusto l’anima mitteleuropea, assunse rispetto a quell’evento.
Così vanno interpretate le dichiarazioni capitali fornite da Konrad («Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste più», «Sono tutti morti oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me…») e da Henrik («Per me quel mondo è sempre vivo, anche se non esiste più nella realtà. È vivo perché gli ho giurato fedeltà. È tutto ciò che posso dire»).
In quel castello ai piedi dei Carpazi si son dunque dati convegno, insieme con Márai, i vari Musil, Hofmannsthal, Kraus e Trakl, i grandi cantori della Finis Austriae. Ed è la poesia di Trakl che, in particolare, può darci la chiave del romanzo dello scrittore ungherese e, insieme, dello spettacolo che ne è stato tratto per la regia di Laura Angiulli: giacché spasima come la fiammella che brilla di una luce più intensa un attimo prima del buio.
Mi sembra, infatti, che le citate dichiarazioni di Konrad ed Henrik trovino un eco lancinante in «Im Park (Nel parco)», otto versi scanditi da Trakl in guisa di un brivido fra la disperazione e il rimpianto: «Vagando ancora nel vecchio parco, / Oh, silenzio di fiori gialli e rossi! / Anche voi in lutto, divinità miti, / E l’oro autunnale dell’olmo. / Immobile svetta sullo stagno azzurrino / La canna, a sera ammutolisce il tordo. / Oh, china anche tu la fronte / Al marmo consunto degli avi».

Renato Carpentieri è Henrik

Renato Carpentieri è Henrik

Ebbene, nei riguardi di tutto questo Laura Angiulli dispiega una delle sue regie più felici. In perfetto accordo con l’impianto scenografico di Rosario Squillace e il disegno luci di Cesare Accetta, trasforma il luogo dell’azione per l’appunto in uno spazio dell’anima. Che cosa traduce lo spostarsi a casaccio di Henrik e Konrad su due sedie e tre poltrone spaiate, se non i disordinati soprassalti della coscienza che sempre, una volta messo in moto, induce il meccanismo della memoria? E a che cosa allude l’enorme cornice vuota appoggiata sul pavimento contro una parete, se non alla voragine apertasi, giusto, al termine del primo conflitto mondiale?
Nella sequenza conclusiva del romanzo di Márai, lo sappiamo, Henrik ordina alla vecchia governante Nina di riappendere il ritratto della moglie, che era stato tolto, fra i quadri degli antenati. Qui, invece, quell’enorme cornice, sempre vuota, resterà a terra. Ma, poi, Laura Angiulli inventa una scena tra più intense e commoventi che io abbia mai osservato a teatro: Henrik s’avvicina lentamente alla cornice e appoggia lievemente le mani sui suoi due lati, come se volesse abbracciarla.
A questo punto, cedo la parola a Joseph Roth, un altro dei cantori di cui sopra, e al suo romanzo «La marcia di Radetzky»: «Un tempo, prima della guerra mondiale, nell’epoca in cui accaddero gli avvenimenti che qui si raccontano, non era ancora divenuto una cosa indifferente il fatto che un uomo vivesse o morisse. Se uno veniva cancellato dal numero dei terrestri, non veniva subito un altro al suo posto per far dimenticare il defunto, ma restava un vano dove egli mancava, e i vicini o lontani testimoni del passaggio ammutolivano ogni qualvolta scorgevano quel vano. Se il fuoco aveva divelto un’abitazione dal caseggiato d’una strada, il luogo dell’incendio restava ancora a lungo deserto. Poiché i muratori lavoravano con lentezza e con riflessione; e i vicini più prossimi, come anche i passanti casuali, al vedere lo spiazzo vuoto si ricordavano della mole e della facciata dell’abitazione scomparsa. Così era per l’addietro. Tutto ciò che cresceva aveva bisogno di un lungo periodo di tempo per crescere; e tutto ciò che spariva aveva bisogno di un lungo periodo di tempo per essere dimenticato. Tutto ciò che una volta era esistito, aveva lasciato la sua traccia: e allora si viveva di ricordi come oggi si vive della facilità di dimenticare alla svelta e per sempre».
Adesso, debbo proprio perder tempo a dire quanto siano «aderenti» a tanta smarrita e pure indomita poesia della vita Renato Carpentieri (Henrik) e Stefano Jotti (Konrad)? Andate a vederli e a sentirli. Sono il motore (e, molto di più, lo spirito) di uno dei migliori spettacoli che abbia visto in Italia negli ultimi tempi e del migliore in assoluto fra quelli che ho visto a Napoli dall’inizio dell’anno.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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