Nel bar di Pinter c’è solo il «Tomorrow» di Amanda Lear

Arianna Scommegna e Nicola Pannelli in un momento di «Night bar», presentato al Metastasio di Prato (le foto dello spettacolo sono di Duccio Burberi)

Arianna Scommegna e Nicola Pannelli in un momento di «Night bar», presentato al Metastasio di Prato
(le foto dello spettacolo sono di Duccio Burberi)

PRATO – «Credo che invece di un’incapacità di comunicare ci sia una deliberata evasione dalla comunicazione. Il comunicare tra persone è di per se stesso così terrificante da indurre a un continuo divagare su altri argomenti invece di affrontare ciò che è alla base del loro rapporto».
È la dichiarazione di Pinter che – rilasciata nel corso dell’intervista con Kenneth Tynan trasmessa dalla Bbc il 28 ottobre del ’60 – costituisce, lo dico per l’ennesima volta, la chiave decisiva per entrare nell’universo drammaturgico del Nobel inglese. E, di conseguenza, niente meglio di quella dichiarazione permette d’inquadrare «Night bar», lo spettacolo, diretto da Valerio Binasco, che il Teatro Metastasio di Prato e lo Stabile di Genova hanno presentato in «prima» assoluta per l’appunto al Metastasio.
L’allestimento si basa su quattro testi di Pinter: nell’ordine, «Il calapranzi», il più noto e lungo, e i meno conosciuti e più brevi «Tess», «L’ultimo ad andarsene» e «Night». E naturalmente, a inverare la dichiarazione di cui sopra provvede innanzitutto «Il calapranzi». Giacché – tramite Ben e Gus, i due approssimativi, confusi e spaventati sicari che ne sono protagonisti – quel celeberrimo atto unico pone un nodo fondamentale: siamo noi stessi i nostri nemici, siamo noi l’«esterno» imprecisato e inquietante che incombe su Ben e Gus (essi stessi nostri «doppi» speculari) e, infine, siamo noi il boss misterioso che li ha incaricati di uccidere la persona che si presenterà nella stanza del seminterrato (il classico e metaforico ambiente claustrofobico di Pinter) in cui i due stanno ad attendere la vittima designata. La quale, non dimentichiamolo, al termine scopriremo che è Gus.

Harold Pinter

Harold Pinter

Ebbene, a sottolineare la «deliberata evasione dalla comunicazione» di cui parla Pinter bastano appena due esempi. Ben comunica a Gus una notizia appresa dal giornale, «A otto anni uccide un gatto», e commenta: «Proprio tosto. Che ne dici? Uccidere un gatto a otto anni!». E quando Gus gli domanda: «Ma come ha fatto a ucciderlo, quel bambino?», risponde: «Era una bambina». Cioè non risponde. E il secondo esempio è dato da questo dialogo: Ben: «Dài, vai ad accendere» – Gus: «Ad accendere cosa?» – Ben: «L’acqua» – Gus: «Vuoi dire il  gas?» – Ben: «Chi?» – Gus: «Tu» – Ben: «Cosa significa che volevo dire gas?» – Gus: «Quello che volevi dire, no? Il gas» – Ben: «Se ti dico di accendere l’acqua, intendo accendere l’acqua».
Certo, ne «Il calapranzi» c’è anche l’umorismo, sia pur livido e surreale. E serve a rimarcare nella maniera più efficace, ossia per contrasto, la disperazione spinta alla ribalta, la stessa disperazione senza scampo che, del resto, dilaga pure negli altri tre testi in questione: di cui sono protagonisti, rispettivamente, una sbandata, appunto Tess, che rovescia su un poverocristo che beve per conto suo un monologo intriso di follia, sessualità nevrotica e solitudine; un barman e un vecchio rivenditore di giornali che mescola l’«Evening News» e lo «Standard» con un non meglio individuato George che inutilmente è andato a cercare alla Victoria Station; e, infine, un marito e una moglie che, alla presenza di un assonnato barista, rievocano ciascuno in modo diverso il loro primo incontro.

Sergio Romano in un altro momento dello spettacolo diretto da Valerio Binasco

Sergio Romano in un altro momento dello spettacolo diretto da Valerio Binasco

Ora, molto intelligentemente (e giusto il titolo), Binasco ambienta queste quattro storie in un unico ambiente, uno dei bar di terz’ordine, uguali in ogni parte del mondo, che si trovano di solito nei pressi delle stazioni ferroviarie o dei porti e costituiscono l’approdo di tutte le omissioni, di tutti i rimpianti e di tutte le malinconie. E che sembrano fatti apposta per accogliere l’accusa che Pinter ci lancia sotto specie di lezione testamentaria: quella di mettere fra parentesi e, così, di uccidere la vita. Il mare di parole inutili che si scambiano i frequentatori di quei bar, sempre atteggiati come impotenti  voyeurs, richiama, infatti, l’osservazione che fa il protagonista della novella pirandelliana «La carriola»: «Chi vive, quando vive, non si vede […]. Se uno può vedere la propria vita (Pinter direbbe se uno può travestirla, per l’appunto, con le parole, n.d.r.), è segno che non la vive più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina».
Per questo, ed è un’altra idea eccellente di Binasco, lo spettacolo risulta impostato e sviluppato come una lunga dissolvenza incrociata. A partire dall’estremamente funzionale impianto scenografico di Lorenzo Banci, che, poniamo, nel seminterrato in rovina di Ben e Gus già fa comparire a intermittenza su una parete, fra i teli di plastica stracciati e i tavolini e le sedie rovesciati in terra, l’insegna, «Luxor», che sarà del pretenzioso bar in cui piomberà Tess. E poiché i personaggi in azione sono intercambiabili, come intercambiabili sono le situazioni che li vedono loro malgrado protagonisti, ecco che, sempre per fare un esempio, gl’improbabili sicari de «Il calapranzi» vengono dichiaratamente caratterizzati a mo’ delle due facce della stessa medaglia: dal momento che, sempre nel solco della dissolvenza incrociata, l’impacciato e frenetico Gus e il determinato e impassibile Ben possono, a tratti, cedere l’uno all’altro i rispettivi atteggiamenti.
Assolutamente impagabili, giacché perfettamente in linea con i personaggi e le situazioni in essere, appaiono infine i tre interpreti: Arianna Scommegna, Nicola Pannelli e Sergio Romano. Su tutto, su questa notte sospesa fra Hopper e Carver, e in cui tutto è il contrario di tutto, aleggia, come un lamento a sua volta improbabile, la voce ambigua di Amanda Lear che da un juke-box polveroso canta «Tomorrow».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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