Viviani e Napoli

Raffaele Viviani in camerino

Raffaele Viviani nel suo camerino

Riporto anche il secondo momento, pubblicato ieri dal “Corriere del Mezzogiorno”, della riflessione su Viviani che ho svolto in occasione del centotrentesimo anniversario della sua nascita.

Raccontano che, avvicinandosi la morte, Raffaele Viviani tacque per dodici ore. E poi, un attimo prima di spirare, ruppe in un grido altissimo, e insieme dolente e allucinato: «Arapite ‘a fenesta, faciteme vede’ Napule!».
L’ho ripetuto più volte, probabilmente si tratta solo di una leggenda. Ma, ripeto anche questo, il fatto stesso che sia nata la trasforma nell’ennesima e inconfutabile controprova di ciò che costituisce, credo, la caratteristica decisiva del Viviani autore e, ad un tempo, la sua strenua e sostanziale «diversità» rispetto alla tradizione e, in genere, al «milieu» poetico e drammaturgico dell’antica Partenope: la precisa e irrinunciabile scelta di campo a favore di quelli che oggi si chiamerebbero «esclusi» o «emarginati».
In breve, Viviani sentì Napoli come un incubo: un incubo che scaturiva dalla necessità, avvertita con assoluto rigore morale, di cancellare qualsiasi filtro consolatorio o, peggio, demagogico fra la propria scrittura e, per l’appunto, la realtà «nascosta» che quella era destinata a ritrarre. Possiamo assumere come «travestimento» dell’incubo in questione una poesia, «Nuttata chiara», che solo apparentemente è un ironico e innocuo bozzetto realistico: «Scrivo? e che scrivo si nun ghiesce niente? / ‘e ttre d’ ‘a notte, stanco, che ha da asci’? / Veco ca perdo ‘o tiempo inutilmente: / ma, senza suonno, comme aggi’ ‘a durmi’? / E sto screvenno ‘a n’ora a tiempo perzo: / ‘a n’ora sciupo carta, ghiengo ‘a penna / e scrivo e scasso senza fa’ nu vierzo. / Che tengo ‘ncapa, segatura o vrenna?».
Fu perciò Viviani il primo a liberare Napoli e i napoletani dalle pastoie di un’oleografia di comodo soffocante e mortificante. E di qui, ancora, la fondamentale differenza fra il suo teatro e quello di Eduardo De Filippo: l’uno è costruito «in esterni» e l’altro in «interni», l’uno assume come protagonista il coro dei personaggi e l’altro ripropone, nella scia di Pirandello, la crisi del singolo personaggio antagonista nell’universo chiuso del perbenismo piccolo-borghese.
Al riguardo, non si è indagato quanto sarebbe stato necessario sulla conseguenza di tali premesse: le sorprendenti ma inequivocabili parentele fra il teatro di Viviani e la tragedia classica greca. E parlo di parentele che sono riscontrabili prima di tutto sul piano della struttura drammaturgica: giacché pure nell’opera di Viviani verifichiamo, insieme, il rispetto delle tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione, per l’appunto la presenza del coro, un certo uso della musica e della danza e, infine, la costante assunzione della vittima sacrificale.
Estremamente indicativo, in proposito, è il dramma «Pescatori»: in cui, per esempio, il coro – addirittura diviso in due semicori, quello maschile e quello femminile – non solo dà sinanche il titolo al lavoro (esattamente come avvenne per molte tragedie greche, poniamo le «Eumenidi», le «Coefore», i «Persiani»), ma, per di più, realizza materialmente le introduzioni ai tre atti. E il celebre canto («’E vuzze d’ ‘o ssicco, cu ll’uommene attuorno, / cu “Oh! tira!” e cu “Oh! venga!” se scenneno a mmare!»…), funzionando all’interno del testo in qualità di vero e proprio «Leitmotiv», allude direttamente – e giusto in forma di corale – allo stretto rapporto d’interdipendenza, stabilito ancora una volta dalla tragedia greca, fra l’«interno» e l’«esterno», e cioè fra la «tyche», l’evento (ovvero la quotidianità), e la dimensione «altra» dell’inconoscibile, il destino o la volontà degli dei.
Ne discende un altro aspetto importantissimo del teatro di Viviani: l’impianto ritualistico dei suoi testi. E basterebbe considerare, nel merito, l’attacco di un canto famoso e frequentatissimo come «’O sapunariello»: «Eramo ‘a ciente e sidece pezziente; / e ndin ndin mbò… / … facettemo nu tuocco pe’ vede’ / e ndin ndin mbà… / … ‘a miez’a nnuje chi asceva presidente; / e ndin ndin mbò… / e, manco a dirlo, ‘o tuocco ascette a mme! / e ndin ndin mbà!».
Quante volte abbiamo sentito cantare quei versi? E quante volte con l’assoluta convinzione da parte dell’interprete, la stessa che possedeva gli ascoltatori, d’aver a che fare semplicemente con una «tranche de vie» inscritta, sia pure sul filo d’una risentita ironia, per l’appunto in un mero bozzetto realistico? Però, nella circostanza conviene subito riandare all’aureo precetto di Hofmannsthal: «Bisogna nascondere la profondità. Dove? Alla superficie»; e, quindi, ricordare innanzitutto che il 116 – già ricorrente in un antico canto del Cilento dedicato alla perenne malasorte di altrettanti mendicanti – è un numero esoterico che si riferisce alle anime dei morti, ossia ai «senza nome».
Dunque, siamo di fronte all’indissolubile intreccio di cui dicevo, quello fra la quotidianità, la più immediata e riconoscibile, e una dimensione «altra». I cento e sedici pezzenti sono il cosmo, tutti quelli che sono esistiti nella mia comunità, ed io, «’o sapunariello», sono «il prescelto», proprio perché «la sorte è toccata a me».
Di qui, giusto, la costante assunzione da parte di Viviani della vittima sacrificale. In ogni testo di Viviani c’è un personaggio che fin dall’inizio risulta connotato come tale: qualcuno che perisce o rimane sconfitto, qualcuno che, come una sorta di parafulmine, attrae con la propria rovina e, perciò, in qualche modo scarica la tremenda energia scaturita, per l’appunto, dal citato interscambio o scontro fra il mistero e l’ordinario.
In un caso la vittima sacrificale di turno viene designata, addirittura, fin dal suo stato prenatale. Accade ne «L’ultimo scugnizzo». Il protagonista, ‘Ntonio Esposito, mette in atto una spasmodica scalata sociale, fino a diventare il factotum dell’avvocato Razzulli. E tutto questo lo fa in nome e per conto di un suo figlio che deve ancora nascere e che, una volta venuto al mondo, non dovrà essere come lui, uno scugnizzo, ma qualcosa di completamente e definitivamente diverso. Quel figlio, però, nasce morto.
È una denuncia contro la prigione dell’appartenenza di classe. Una prigione da cui ci può liberare, dice Viviani, solo la dignità del lavoro. In «Morte di Carnevale», a Rafele che si lamenta perché la tanto agognata eredità del vecchio usuraio è sfumata, ‘Ntunetta risponde: «E allora che? Rafe’, t’hê ‘a mettere a fatica’».

                                                                                                                                           Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 17/2/2018)

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