Lunga giornata verso la nebbia (artificiale)

Milvia Marigliano e Arturo Cirillo in un momento di «Lunga giornata verso la notte», in scena al Nuovo (la foto è di Diego Steccanella)

Milvia Marigliano e Arturo Cirillo in un momento di «Lunga giornata verso la notte», in scena al Nuovo
(la foto è di Diego Steccanella)

NAPOLI – Dunque – dopo aver messo in scena «Lo zoo di vetro» di Tennessee Williams e «Chi ha paura di Virginia Woolf?» di Edward Albee – con l’allestimento di «Lunga giornata verso la notte» di Eugene O’Neill (lo presenta al Nuovo Tieffe Teatro Milano) Arturo Cirillo conclude la trilogia che ha dedicato alla drammaturgia statunitense contemporanea.
Ma lo ripeto ancora una volta: se esiste un regista incostante (che, voglio dire, produce risultati discontinui), quello è proprio Cirillo. Con la regolarità di un metronomo, alterna spettacoli indovinati e spettacoli sbagliati. E così, all’ottimo allestimento de «Lo zoo di vetro» fece seguire una discutibile messinscena de «La gatta sul tetto che scotta»; e all’intelligente rilettura di «Chi ha paura di Virginia Woolf?» oppone adesso, per l’appunto in ossequio alla legge dell’alternanza, una versione di «Lunga giornata verso la notte» quant’altre mai banale e scontata.
Cirillo ha dichiarato ai giornali che considera «Lunga giornata verso la notte» come il frutto di «una forte tradizione naturalistica». E l’ha dichiarato con l’aria di chi ha fatto la scoperta del secolo. Però, ben altri, e con ben altra autorevolezza, avevano detto la stessa cosa prima di Cirillo. Basta ricordare quanto scrisse di O’Neill uno studioso del livello di Peter Szondi: «In lui continua a operare anche il romanziere naturalista, erede di Zola, che non ha più una parola da dire per i suoi eroi, e meno che mai una parola buona, e che si limita a registrare come un disco i discorsi esterni e interni che gli uomini gli forniscono nel quadro deterministico di leggi genetiche e psichiche».

Eugene O'Neill

Eugene O’Neill

In altri termini, si tratta del problema complessivo della cultura americana, che agisce attraverso schemi di riporto in riferimento a quella europea, e di una precisa epoca storica, in cui, tanto per farla breve, della droga si poteva ancora parlare, mentre oggi la scontiamo, terribile e riconoscibilissima, giorno per giorno.
Insomma, «Lunga giornata verso la notte» (titolo originale «Long Day’s Journey into Night») è un testo irrimediabilmente datato: anche e soprattutto perché risulta ostentatamente e dichiaratamente autobiografico. Sappiamo, infatti, che il 22 luglio del 1941 O’Neill consegnò il manoscritto originale del dramma alla moglie, Carlotta Monterey, con una dedica in cui diceva ch’era nato dal «coraggio di affrontare alfine i miei morti».
Così, siamo di fronte a un groviglio di laceranti traumi, astiosi egoismi e aggressivi contrasti personali da tipico interno-inferno familiare: si scontrano il padre James Tyrone, un attore tanto famoso quanto superficiale e taccagno, la madre Mary, morfinomane, il figlio maggiore Jamie, alcoolizzato, e quello minore Edmund, poeta e tisico. Ed è fin troppo evidente, manco a dirlo, l’influsso di Strindberg, col che torniamo alla questione del naturalismo.
Al riguardo, e in merito alle dichiarazioni rilasciate ai giornali da Cirillo, il problema non è, ovviamente, chi ha pensato e detto prima certe cose, ma il complesso delle invenzioni che, sul piano concreto della messinscena, da quelle cose discendono. Nell’anno di grazia 1989 vidi all’Argentina di Roma un allestimento del dramma di O’Neill in parola presentato dal celebre Kungliga Dramatiska Teatern di Stoccolma e firmato da un signore che si chiamava Ingmar Bergman. E Bergman superava il naturalismo di O’Neill mettendo in scena il suo testo come – giusta la dedica citata – una sorta di seduta spiritica, del resto esplicitamente annunciata quando, all’inizio, i quattro personaggi protagonisti si presentavano, dinanzi alla diapositiva della loro casa, stretti nella classica «catena» medianica.

Ingmar Bergman

Ingmar Bergman

Che cosa, invece, fa Arturo Cirillo? Fa quello che infinite altre volte abbiamo visto fare da altri suoi colleghi. Per esempio ci mostra gli attori che restano in vista anche quando non partecipano all’azione proprio come ce li mostrò Mauro Bolognini, regista di un’edizione di «Lunga giornata verso la notte» datata 1980. E come fece Bolognini, elimina il personaggio della cameriera Cathleen: il che, fra l’altro, è un errore madornale, poiché la didascalia con cui O’Neill descrive quel personaggio («una prosperosa contadina irlandese di poco più di vent’anni, con un bel faccino rosso, capelli neri e occhi azzurri») dimostra che Cathleen ha lo scopo preciso di sottolineare per contrasto lo stato «cadaverico» della famiglia Tyrone.
Anche Bergman, infine, certe battute-chiave le faceva dire, come adesso fa Cirillo, a una Mary che stava al proscenio e si rivolgeva direttamente agli spettatori. E ben vengano, d’altra parte, i tagli contro la verbosa prolissità di O’Neill. Ma bisogna stare attenti. La battuta di Edmund «Dio è morto: di pietà per l’uomo Dio è morto» qui viene troncata in «Dio è morto». Senonché «Dio è morto: di pietà per l’uomo Dio è morto» è una citazione da «Così parlò Zarathustra»: e troncata come l’ha troncata Cirillo ci trasporta da Nietzsche a Guccini e ai Nomadi, che sono, con tutto il rispetto, qualcosa di un po’ diverso.

Mauro Bolognini

Mauro Bolognini

Per il resto, i soliti arredi che galleggiano nel vuoto e la solita denuncia dell’artificio teatrale, con la nebbia creata a vista dalla macchina del fumo e gli specchi incorniciati da lampadine dei camerini degli attori. Ma chiudo rilevando l’errore decisivo di questo spettacolo: la contraddizione stridente fra l’intento di battere in breccia il naturalismo e una recitazione per l’appunto naturalistica, debitamente risentita e spesso urlata o, alternativamente, piagnucolosa. Nel merito sarebbe stato doveroso tener presente che nel testo di O’Neill ricorrono come lancinanti spie d’allarme il sostantivo «amarezza» e gli aggettivi «amaro», «desolato» e «affranto».
Non più che professionale e apprezzabile sul versante strettamente tecnico si rivela, allora, la prova degl’interpreti: lo stesso Arturo Cirillo (James), Milvia Marigliano (Mary), Rosario Lisma (Jamie) e Riccardo Buffonini (Edmund). Per mio conto prendo in prestito la vera e propria battuta tematica del testo di O’Neill: «Forse che il passato non è il presente? Ed è anche il futuro. Cerchiamo tutti di sfuggirgli, ma la vita non ce lo permette». Nel 1989, a vedere con me la «Lunga giornata verso la notte» di Bergman, c’erano Mariangela Melato, Valeria Moriconi, Monica Vitti, Anna Proclemer, Gigi Proietti e – seduta, naturalmente, in prima fila – Ingrid Thulin.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Lunga giornata verso la nebbia (artificiale)

  1. Davide Pascarella scrive:

    Enrico,
    la leggo assiduamente, e nel silenzio, dal “basso” dei miei vent’anni.
    Mi sorprende sempre come lei riesca (quasi sempre) a dare voce e motivo alle sensazioni che in qualche modo mi accompagnano quando un sipario si chiude e io vengo catapultato di nuovo per le strade del mondo.
    La prima volta è capitato con “Natale in casa Cupiello” diretto da Latella, quando l’ho letta per la prima volta; poi ancora con la complessità di “Genesis 6, 6-7” di Angelica Liddell, che lei ha dispiegato accuratamente ai miei occhi; e poi ancora altre volte.
    Adesso penso che sia il mio primo “anniversario” da suo lettore, e dunque le dico grazie. E – mi perdonerà – approfitto dello spazio che lei dedica a questo spettacolo perché mi ritrovo a leggerla dopo averlo visto e, ancora una volta, ritrovo nel suo commento – evidentemente più preparato e consapevole del mio – le sensazioni che lo spettacolo mi ha suggerito poco fa.
    La lascio con una domanda. Noto, fra le sue recensioni, l’assenza di spettacoli ospitati in spazi off. Posso chiederle come mai? Nei pochi anni che ho vissuto da spettatore – gli ultimi tre – credo di aver subito più delusioni dai cartelloni di spazi più o meno grandi (questo spettacolo di Arturo Cirillo, per esempio) che da quelli degli spazi off, e spesso ho pensato che mi sarebbe piaciuto leggere la sua su questo o quest’altro spettacolo.
    Davvero, grazie. Continuerò a leggerla. Arrivederci!
    Davide Pascarella

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Davide,
    consentimi di darti del tu, me ne autorizza la tua età che, rispetto alla mia, è molto più ricca d’energie ed entusiasmi: gli stessi che manifesti nel tuo commento circa il teatro e, in particolare, l’attività, spesso meritoria, che si svolge negli spazi “off”.
    Sì, è vero che in quegli spazi io vado assai meno che nelle sale cosiddette “ufficiali”. Ma, credimi, non è per disattenzione o cattiva volontà. La mia storia professionale s’è svolta, sempre, nel segno del privilegio che, con assoluta convinzione, ho accordato al teatro di ricerca, non ultimo al teatro che tu ricordi, quello, appunto, di Antonio Latella.
    La lacuna che rilevi dipende solo dal fatto che, dovendo io vedere anche spettacoli che vengono dati fuori Napoli, in tutta Italia e talvolta all’estero, spesso mi manca il tempo di seguire gli eventi “minori”, pur essendo altrettanto convinto che abbiano, non di rado, più valore di quelli “maggiori”.
    In ogni caso, farò il possibile per emendarmi. E intanto ti ringrazio per la stima e la fedeltà che mi riservi: sono tanto più preziose e gratificanti perché vengono da un giovanissimo, ossia dall’alba di una vita e, perciò, da un’apertura al nuovo e, me lo auguro per te e per me, al cambiamento.
    Auguri, e tanti affettuosi saluti.
    Enrico Fiore

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