Quella recita stanca e infinita che chiamiamo vita

Da sinistra, Sandro Lombardi e Massimo Verdastro in un momento de «L'apparenza inganna», in scena al Nuovo

Da sinistra, Sandro Lombardi e Massimo Verdastro in un momento de «L’apparenza inganna», in scena al Nuovo

NAPOLI – Ancora una volta – ne «L’apparenza inganna», un testo del 1983 adesso presentato al Nuovo in un allestimento diretto da Federico Tiezzi – il grande Thomas Bernhard mette in scena degli attori. Per riferirci a un giro d’anni ristretto, l’aveva già fatto nel 1977 con «Minetti» e lo rifarà nel 1984 con «Ritter, Dene, Voss» e nel 1986 con «Semplicemente complicato». E risulta decisivo, se vogliamo comprendere non solo i due atti in questione ma anche il teatro di Bernhard in generale, chiedersi il motivo di una simile predilezione.
L’attore, ovviamente, è uno che recita. Ma nel caso di Bernhard occorre intendere il recitare come re-citare, citare di nuovo, e – sotto specie di metafora della vita – come il compiere di nuovo le stesse azioni allo stesso modo, interminabilmente. E il miracolo che fa grande l’autore austriaco è che tale circolo chiuso coincide perfettamente con l’insieme della sua opera: «L’apparenza inganna» ha un tema centrale identico a quello de «La forza dell’abitudine», il testo del 1974 in cui s’accampa per l’appunto la circolarità coatta dell’esistenza, che soltanto la morte può spezzare, con la conseguenza di una vita sentita unicamente, giusto, come abitudine e, peggio, fardello tanto rifiutato quanto inevitabile. Infatti, la vera battuta-chiave de «La forza dell’abitudine» è la seguente: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere».
C’imbattiamo, così, nel direttore di un piccolo circo, Caribaldi, che impone a se stesso e ai suoi compagni di provare continuamente il «Quintetto della trota» di Schubert. E tra i suoi compagni figura un giocoliere che, con ogni evidenza, si rivela come un equivalente di Karl, il giocoliere («un vecchio artista», lo definisce Bernhard) che è uno dei due personaggi de «L’apparenza inganna». L’altro è il fratello Robert, appunto «un vecchio attore». E i due mettono in atto un rituale che a sua volta si rivela come un equivalente della prova del «Quintetto della trota», quello di vedersi, immancabilmente, il martedì in casa di Karl e il giovedì in casa di Robert.

Federico Tiezzi

Federico Tiezzi

Diventa perciò assolutamente significativo il fatto che, quando Karl si chiede «se sia giusto / ogni giovedì e martedì / forse venerdì e lunedì / o domenica e mercoledì», subito si risponda: «no no / restiamo così / deve rimanere un’abitudine». Appunto, l’abitudine come unico connotato di una vita ineffettuale. Non a caso, Karl e Robert finiscono a risultare, più che personaggi autonomi, le due facce di una stessa medaglia. Tanto che, per esempio, Mathilde, la defunta moglie di Karl, viene evocata da Robert in maniera ambigua, quasi fosse stata anche la sua donna, o consorte addirittura. Come interpretare altrimenti il fatto che lei, nel testamento, abbia lasciato a Robert e non a Karl «la casetta dei week-end»?
«L’attore se l’è meritata / non l’artista / l’impostore / non il consorte», si lamenta Karl. Ma è sempre una recita, una recita con se stesso. E qui, dunque, torna un’altra costante dell’opera complessiva di Bernhard, l’invettiva contro il teatro della rappresentazione. A proposito del fratello dice ancora Karl: «[…] in realtà è l’anti-artista in persona / come tutti gli attori del resto». E la frecciata, indubitabilmente, è diretta contro gli attori in quanto personificazioni dell’abitudine di cui sopra. Un’abitudine che Karl richiama, riferendosi a Mathilde, con la battuta inequivocabile, e amarissimamente ironica: «La domenica la lasciavo / eseguire la sonata di Mozart / e così si viveva piacevolmente / anno dopo anno».
Come si vede, siamo di fronte – ciò che ribadisce la circolarità del teatro di Bernhard nel suo insieme – a un’ennesima coincidenza con «La forza dell’abitudine», la sonata di Mozart quale equivalente del «Quintetto della trota» di Schubert. Ma, giusta la battuta di Caribaldi («Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere»), Karl, mentre dice del fratello che è affetto da «presunzione» e «superficialità», immediatamente dopo aggiunge: «D’altra parte è ammirevole / quell’imparare a memoria frasi senza fine».
Si capisce, allora, perché ne «L’apparenza inganna» – un testo in versi che, come ogni altro di Bernhard, è fittamente tramato, nel solco della circolarità su cui vado insistendo, di locuzioni, e in specie di singole parole, che ininterrottamente ricorrono dall’inizio alla fine – tutto diventi indifferenziato e l’«alto» e il «basso» coincidano. E non si potrebbe, al riguardo, immaginare una battuta più emblematica di quella che pronuncia Karl mentre cerca la sua limetta per unghie sotto il lavamano: «Adesso per tagliarmi le unghie ho bisogno anche / degli occhiali da lettura / Con gli stessi occhiali con cui leggo Voltaire / vedo le mie unghie dei piedi».

Robert e Karl, due fratelli che sono le facce di una stessa medaglia

Robert e Karl, due fratelli che sono le facce di una stessa medaglia

Ebbene, l’allestimento de «L’apparenza inganna» in scena al Nuovo rende tutto questo con un’intelligenza e una precisione semplicemente esemplari. E non ho alcuna esitazione a collocarlo tra gli spettacoli migliori che abbia visto negli ultimi anni, accanto a «Il giardino dei ciliegi» di Dodin presentato nel novembre scorso allo Strehler di Milano.
Tanto a partire dall’impianto scenografico di Gregorio Zurla, che stabilisce una perfetta simmetria fra le due sedie affiancate del soggiorno di Karl e le due poltrone ugualmente affiancate del salotto di Robert, oltre che fra le due piantane presenti sia in quel soggiorno che in quel salotto: giusta la battuta: «Se non abbiamo nessun rapporto con la geometria / non possiamo capire il mondo». E lo stesso vale per i costumi di Giovanna Buzzi, a partire dagli eclatanti cappotti rossi, assolutamente uguali, che indossano i due fratelli. Come dicevo, non sono, Karl e Robert, le facce di una stessa medaglia, ovvero lo specchio l’uno dell’altro?
Inoltre, sia nel soggiorno di Karl che nel salotto di Robert fa bella mostra di sé un albero di Natale debitamente adorno di lampadine accese. E l’albero di Natale, inutile sottolinearlo, è il simbolo di un rito che si perpetua, ossia, per l’appunto, di un’abitudine.
In una cornice siffatta, poi, Federico Tiezzi dissemina invenzioni che, tutte insieme, costituiscono un’autentica e sapientissima lezione su che cosa possa e debba essere la regia teatrale. Basta citarne solo tre: nella gabbia di Maggi, il canarino di Karl, c’è un uccello vero, e tanto realismo vivente serve a rimarcare per contrasto l’astratto della situazione messa in campo; intorno a quella gabbia, per appurare se, come diceva Mathilde, il canarino Maggi è cieco da un occhio, si reiterano pantomime che introducono nella trama delle parole logore e inutili che si scambiano Karl e Robert la lama sottile di una nevrosi tanto più crudele in quanto venata di comicità; e infine, a ribadire il loro consistere sostanziale in una persona sola, nel soggiorno di Karl i due fratelli si scambiano di posto sulle sedie.
Del resto, non sorprende un simile, raffinato lavoro di bulino: questa è la nuova edizione di un allestimento de «L’apparenza inganna» che ha avuto modo di migliorarsi senza sosta nel corso di ben diciotto anni, da quando, nel 2000, la Compagnia Lombardi/Tiezzi, che allora si chiamava I Magazzini, lo presentò in «prima» italiana nel Palazzo Cenci di Santarcangelo, meritandosi il Premio Ubu per la regia. E a questo punto risulta proprio superfluo aggiungere parole circa la prova strepitosa, davvero da ideale antologia del teatro, che forniscono i due interpreti, Sandro Lombardi (Karl) e Massimo Verdastro (Robert).
A proposito di quest’ultimo, debbo confessare che mi ha procurato un brivido particolare la scena in cui, con la corona di Lear sulla testa, piange, lo sguardo stralunato, perché non ricorda le battute. Si sente «Die grosse Glück» cantata da Gustav Gründgens, che parla della grande fortuna sognata e attesa per anni e che per Robert (ma per ognuno di noi, si capisce) non è arrivata. E quel brivido non dipendeva solo dal fatto che con eccezionale bravura Verdastro rendeva il terrore di Robert, il terrore, s’intende, che il vuoto di memoria significasse l’interruzione del rito e dell’abitudine suddetti.
Gli è che Massimo interpretò me stesso ne «Le ombre lunghe», il testo che scrissi in omaggio ad Annibale Ruccello e che presentammo il 30 ottobre del 2003 a Parigi, in una Comédie des Champs-Elysées gremita, nell’ambito della rassegna «Les Italiens» diretta da Maurizio Scaparro. E non sto divagando. Chi, se non Annibale Ruccello, inverò sino all’estremo le tematiche profonde de «L’apparenza inganna»? Jennifer si traveste di parole che mentono esattamente come Karl e Robert, ma, rispetto a loro, giunge a travestire sinanche il proprio suicidio.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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2 risposte a Quella recita stanca e infinita che chiamiamo vita

  1. Francesco Scotto scrive:

    Gentile dottor Fiore, per fortuna ancora grande teatro!
    Una geometria di sentimenti e risentimenti, come lei sottolinea, in cui Karl e Robert – quasi fratelli siamesi privi di Mathilde che forse fisicamente li univa – continuano a ripetere i loro incontri come quel carillon che, caricato in scena da Karl, esprime una monotonia di ritmo e suono.
    Grande regia per grandi interpreti: scene e controscene illuminano il testo. E grazie per la sua non meno illuminante (come sempre) analisi.
    Francesco Scotto

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Scotto,
    è una fortuna anche che si offra a un critico e a uno spettatore attento l’occasione di essere perfettamente d’accordo su uno spettacolo. Parliamo di un’occasione sempre più rara. E perciò grazie a lei di averla sottolineata.
    Enrico Fiore

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