«Tango glaciale», un respiro lungo trentasei anni

Da sinistra, Licia Maglietta, Tomas Arana e Andrea Renzi in un momento del «Tango glaciale» edizione 1982 (la foto è di Cesare Accetta)

Da sinistra, Licia Maglietta, Tomas Arana e Andrea Renzi in un momento del «Tango glaciale» edizione 1982
(la foto è di Cesare Accetta)

Chiudo le mie riflessioni in merito alla riedizione di «Tango glaciale», il celebre spettacolo di Mario Martone, con quest’articolo pubblicato ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Ho sempre sostenuto che, per comprendere appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso, verificandone la coerenza. E Mario Martone ne rappresenta la prova decisiva, anche con questo riallestimento, a distanza di trentasei anni dalla prima edizione, del suo celebre «Tango glaciale».
Il percorso è un itinerario scandito da tappe progressive. E su tale preciso concetto Mario Martone insisté in tutte le risposte che mi diede durante l’intervista con cui, su «Paese Sera», il 27 gennaio del 1982 presentai il debutto al Nuovo di quello spettacolo. Fra l’altro, Martone sottolineò il fatto che con «Tango glaciale» compivano – lui e il suo gruppo, Falso Movimento – «un’operazione molto diversa rispetto ai nostri precedenti lavori e al tipo di teatro che ci è congeniale». E spiegò che, in breve, «Tango glaciale» costituiva l’abbandono del «paesaggio strettamente metropolitano» caratteristico degli spettacoli che fin lì aveva messo in scena, collocati nell’ambito della «nuova spettacolarità», e il passaggio a «un campo di frequenze mentali estremamente vasto, sia dal punto di vista spaziale che da quello temporale»: così come, aggiungo io, «Controllo totale» aveva costituito l’abbandono della «post-avanguardia» e il passaggio alla «nuova spettacolarità».
Infatti, «Tango glaciale» oscillava (Martone disse che «fluttuava») fra la Grecia classica e il «poliziesco», fra le coreografie televisive e, appunto, il tango argentino. E agganciava il bagaglio di elaborazione teorica proprio della «nuova spettacolarità» all’unità di luogo, al testo e alle scenografie compatte: attribuendo al tutto, però, il senso di una sequenza cinematografica, di modo che l’occhio dello spettatore veniva condotto all’interno di una casa i cui vari ambienti risultavano a mano a mano sconvolti, per l’appunto, da una serie di viaggi mentali nello spazio e nel tempo.
Per intenderci, «Tango glaciale» era come un lungo respiro, in cui – dal punto di vista degli spettatori – la fase dell’inspirazione era costituita dalla superficie e quella dell’espirazione dalla profondità. In altri termini, la struttura della messinscena funzionava – e giusto a partire dalla famosa «quarta parete» – come un vero e proprio soffietto.
Ecco, dunque, la facciata dipinta di quella casa e i fumetti di Daniele Bigliardo che ne riproducevano il soggiorno, la piscina, il giardino, la cucina e così via. E uno si aspettava il solito gioco unidimensionale a cui ci aveva abituati la «nuova spettacolarità». Ma subito dopo prendeva corpo al centro del palcoscenico un inconfondibile teatrino all’italiana che, mediante il sollevarsi del suo canonico siparietto, svelava progressivamente gli stessi ambienti citati, e stavolta riprodotti in un’assai naturalistica (per quanto eclatante, e quindi dichiaratamente falsificata) figurazione tridimensionale.
Del resto, un identico alternarsi di superficie e di profondità si vedeva anche nelle singole sequenze dello spettacolo: per esempio, nel successivo apparire di disegni che riproducevano una ragazza con la fiaccola e un discobolo (l’immagine di una Grecia classica da reminiscenza scolastica o da dépliant turistico) e di un’attrice e di un attore abbigliati e atteggiati esattamente come quei proverbiali modelli.

Jozef Gjura e Giulia Odetto in un momento del «Tango glaciale» edizione 2018 (la foto è di Mario Spada)

Jozef Gjura e Giulia Odetto in un momento del «Tango glaciale» edizione 2018 (la foto è di Mario Spada)

Si capisce, allora, che gli elementi del teatro tradizionale evocati da Martone – quel teatrino all’italiana, ma anche il testo e le scenografie compatte – si riducevano, essi stessi, a un allegro e ironico gioco sospeso fra l’uso accattivante di determinati codici e la loro contemporanea, o immediatamente successiva, negazione. E questo, perciò, era il senso profondo del gioco a rimpiattino fra la superficie e la profondità. Mario Martone ci dimostrava che cosa significa oggi essere colti: può significare soltanto il possesso di dati e d’informazioni perfettamente padroneggiati, ma che non subiscono la tentazione di organizzarsi in ideologie totalizzanti e, invece, si piegano docilmente a raccontare, a raccontare unicamente la nostra quotidianità insieme slabbrata ed eroica.
Tanto, quindi, ci si rovesciò addosso, e ci travolse e ci commosse, la sera del 27 gennaio 1982 al Teatro Nuovo. Insomma, «Tango glaciale» fu, trentasei anni fa, una sorta di manifesto di un’epoca e di un mondo che oggi appaiono né più né meno preistorici. A ribadirlo, fra l’altro, sta il fatto che, sul piano musicale, uno dei modelli di riferimento dello spettacolo era il gruppo statunitense Lounge Lizards, che portava il rock più estremo sulle spiagge del jazz degli Anni Quaranta: e guarda caso, il primo concerto in Italia dei Lounge Lizards venne dato a Bologna, appena un anno prima che vedesse la luce «Tango glaciale», nell’ambito di un festival non poco significativamente intitolato «ELECTRA 1 – Festival per i fantasmi del futuro» e a cui parteciparono, per quanto riguarda il teatro, quei Magazzini Criminali con i quali (allora si chiamavano Il Carrozzone) altrettanto significativamente aveva intrecciato il proprio cammino il primissimo Martone, per l’esattezza il Martone che, alla testa di un gruppo che si chiamava Il Battello Ebbro, aveva messo in scena nello Spazio Libero di Vittorio Lucariello lo spettacolo d’esordio «Faust e la quadratura del cerchio».
Tuttavia, questo riallestimento di «Tango glaciale» non è affatto un conato di nostalgia. Si collega, invece, al percorso e alla coerenza che ho sottolineato all’inizio. A cominciare dal fatto che Martone non ha effettuato il riallestimento in parola di persona, ma lo ha affidato a Raffaele Di Florio e ad Anna Redi, suoi collaboratori di lunga data.
Mi sembra di poter riassumere il tutto alla luce di «Retrotopia», il saggio di Zygmunt Bauman pubblicato appena qualche mese fa da Laterza. Bauman scrive: «[…] le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità». Ed è un’osservazione assai sconfortata. Ma l’ultimo capitolo del saggio s’intitola: «Guardare avanti, per cambiare». E quella virgola significa che il guardare avanti non basta, deve identificarsi con l’approdo al nuovo. Ciò che fece Martone mettendo in scena «Tango glaciale» trentasei anni fa e ciò che fa oggi nel modo in cui lo ripropone.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 19/1/2018)

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2 risposte a «Tango glaciale», un respiro lungo trentasei anni

  1. Raffaele Di Florio scrive:

    Gentile Fiore,
    è sempre un piacere leggere i suoi articoli.
    Per me è stato un onore partecipare al “reloaded” di “Tango glaciale”; e, come ripeteva Martone a me e ad Anna Redi, avevamo in consegna una pala d’altare da restaurare e, quindi, bisognava restituire non la nostalgia o la sterile riproduzione, ma il vigore e l’energia che misero in campo i ragazzi di trentasei anni fa.
    Non è stato semplice, ma è stato molto divertente!
    Grazie anche per la sua “testimonianza veneziana” e buon tutto.
    Raffaele Di Florio

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Di Florio,
    ancora una volta sono io che ringrazio lei per l’attenzione che mi riserva. E complimenti per la precisione e la passione con cui avete condotto in porto quest’impresa.
    Enrico Fiore

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