Chi ha paura di «Questi fantasmi»?

Eduardo De Filippo nella celebre scena del caffè di «Questi fantasmi!»

Eduardo De Filippo nella celebre scena del caffè di «Questi fantasmi!»

NAPOLI – Qui di seguito la riflessione, pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno», che ho svolto a partire dall’allestimento di «Questi fantasmi!» in scena al Bellini. 

«I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi…». La celebre battuta rivolta da Pasquale Lojacono all’immancabile professor Santanna sta risuonando ancora una volta, in questi giorni, dal palcoscenico del Bellini, durante le repliche dell’altrettanto celebre commedia di Eduardo, appunto «Questi fantasmi!», presentata dalla Compagnia di Teatro di Luca De Filippo per la regia di Marco Tullio Giordana. E c’è da chiedersi che cosa possa significare oggi, al di là, ovviamente, del riferimento al plot della commedia in parola.
Quali sono «i fantasmi che non esistono», quelli che «abbiamo creati noi», e in che senso «siamo noi i fantasmi»? Ci è consentito, credo ragionevolmente, rispondere che «i fantasmi che non esistono» sono, a Napoli, le presunte e comode certezze che insistiamo a voler vedere in una tradizione malintesa, e frequentata, proprio perché tale, sotto specie di una sorta di corazza che dovrebbe proteggerci dai mali del presente, e soprattutto affrancarci dal dovere e dalla fatica di trovare ad essi un antidoto, tanto in termini culturali quanto sul piano dell’impegno civile; mentre «siamo noi i fantasmi» proprio perché sostituiamo alla nostra concreta identità individuale l’identificazione fideistica, e dunque utopistica, con quella tradizione.
Perciò, la sera della «prima» di «Questi fantasmi!» al Bellini, circolavano fra il pubblico i dissensi di quanti non riconoscevano nella messinscena di Giordana gli stilemi, da loro ritenuti immutabili e intoccabili, di quella di Eduardo. Eppure è stato lo stesso Eduardo a mettere in guardia contro simili pigrizie o, peggio, tradimenti dell’onestà intellettuale. Ricordo ancora una volta che il 13 aprile 1979, al termine dello spettacolo composto da «Il berretto a sonagli» di Pirandello e dal proprio «Sik-Sik, l’artefice magico», l’ultima recita che tenne a Napoli, Eduardo mi disse nel camerino del San Ferdinando, con una delle sue fulminee e fulminanti osservazioni, disseminate senza parere in un mare di ordinaria conversazione (e dovevi stare attentissimo per poterle cogliere), che «non riusciremo a procedere spediti fino a quando non avremo fucilato la dignità».
Per «dignità» intendeva, certo, il falso decoro esteriore. Ma non a caso poco prima, in palcoscenico, Eduardo, a proposito di «Sik-Sik, l’artefice magico», aveva detto: «Quest’atto unico lo ritengo all’altezza del maestro Pirandello». Così aveva messo l’accento sul tema centrale che hanno in comune giusto «Sik-Sik, l’artefice magico» e «Il berretto a sonagli»: che è, sì, quello del mantenimento ad ogni costo del decoro esteriore (Sik-Sik, lo scalcagnato prestidigitatore, non si fa scrupolo di piazzare dei «pali» in platea pur di riuscire in qualche modo a salvaguardare la sua povera fama allo stesso modo che lo scrivano Ciampa accetta che la moglie lo tradisca col suo principale a patto che lo scandalo resti chiuso fra le pareti di casa), ma anche, e soprattutto, quello della Forma, per sempre data e per sempre riconoscibile, in cui l’uomo tenta disperatamente d’imprigionare il susseguirsi dei momenti di disgregazione di cui è fatta la vita.
In tal modo vanno in frantumi le stesse certezze che comunemente e superficialmente si nutrono circa i più amati fra i capolavori di Eduardo. Prendiamo, ad esempio, «Filumena Marturano». Di solito si considera quella commedia come il ricalco di una modesta «tranche de vie», a partire dal fatto che lo stesso Eduardo, nella nota intervista pubblicata da «Oggi» nel 1956, dichiarò: «L’idea di “Filumena Marturano” mi nacque dalla lettura di una notizia: una donna, a Napoli, che conviveva con un uomo senz’esserne la moglie, era riuscita a farsi sposare soltanto fingendosi moribonda».
Ecco la pigrizia. Si legge «Filumena Marturano», la si recita e la si vede da spettatori come se fosse un mero bozzetto realistico desunto dalla cronaca. Mentre occorrerebbe riflettere sul passo seguente che già ho avuto modo di citare: «Ein Weib zu ihrem Mann: ja, es ist wahr, nur eins dieser drei Kinder ist von Dir, aber ich sage Dir nicht, welches, damit Du die andern nicht schlecht behandelst». In italiano suona: «Una donna a suo marito: sì, è vero, solo uno di questi tre bambini è figlio tuo, ma non ti dico quale perché non voglio che tratti male gli altri». E non si tratta di una traduzione in tedesco di «Filumena Marturano». È il frammento 4149, datato «Vienna, 18 aprile 1847», così come compare nell’edizione dei «Diari» («Tagebücher Bd. 3, 1845-1854») di Friedrich Hebbel pubblicata a Berna nel 1970.
È assai improbabile, se non impossibile, che Eduardo abbia conosciuto Hebbel e, nella fattispecie, i «Diari» in questione. E allora possiamo spiegarci la strabiliante identità fra la sua «Filumena Marturano» e l’appunto del drammaturgo tedesco, precedente di quasi un secolo, pensando alla persistenza nel teatro universale, attraverso le epoche e al di là di esse, di un rapporto unico e straordinariamente forte e totalizzante come quello che esiste fra la madre e i figli, anche contro il maschio. E immediato, fatte le debite differenze, sorge al riguardo il paragone con il mito di Medea.
D’altra parte, una lezione contro i «fantasmi» che prendono il posto della vita ci viene pure da quel Raffaele Viviani del quale è appena caduto, il 10, il centotrentesimo anniversario della nascita. Fu il poeta del realismo che continuamente si muta in simbolo.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Corriere del Mezzogiorno», 12/1/2018)

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6 risposte a Chi ha paura di «Questi fantasmi»?

  1. Rosa Startari scrive:

    Caro Fiore,
    sono sempre preziose le sue riflessioni. Mi piace leggere i suoi punti di vista inconsueti e attingere alla sua conoscenza profonda e vasta: mi regala sempre nuove scoperte.
    A questo proposito… Leggendo una sua “antica” recensione (“Quel presepe grande come il mondo”, sulla ripresa di “Natale in casa Cupiello” da parte di Giuffrè, credo nel 1999), vi ho trovato una curiosissima notizia: una versione “beat” dell’opera con Nennillo in capelli lunghi e calzini gialli… Veramente incredibile! Sto leggendo molto su quell’opera perché la mia compagnia la sta portando in vari teatri. Ma finora non avevo mai letto di questa versione. Ho cercato altre notizie in giro e, beh, non ho trovato nulla di nulla, se non un cenno in una filmografia. Praticamente, se non ci fosse lei questa “chicca” sarebbe già stata “cancellata” dalla memoria collettiva.
    Posso diffondere questa notizia sulla pagina FB della Compagnia? Come sempre grazie mille.
    Rosa Startari

  2. Enrico Fiore scrive:

    Cara Rosa,
    per la precisione l’allestimento di “Natale in casa Cupiello” da parte di Carlo Giuffré è del 1998. Ma la notizia del Nennillo “beat” non è contenuta nella mia recensione di quello spettacolo, l’ho riportata in un altro scritto che adesso non ricordo. Comunque è assolutamente vera: l’attore che dava vita all’inedita “revisione” del celebre personaggio si chiama Giancarlo Palermo, ed è un attore di straordinaria bravura che non ha fatto carriera solo perché ha sempre rifiutato ogni tipo di compromesso. A Eduardo lo segnalò Paolo Ricci, grande pittore, grande critico teatrale de “l’Unità” e, soprattutto, amico fraterno dello stesso Eduardo.
    Spero di aver soddisfatto almeno in parte la sua curiosità. E va da sé che può diffondere queste informazioni come crede. Intanto, colgo l’occasione per ringraziarla ancora dell’attenzione e della stima che continua ad accordarmi.
    Enrico Fiore

  3. Rosa Startari scrive:

    Grazie, come sempre lei è una fonte inesauribile di sapienza.
    Rosa Startari

  4. Enrico Fiore scrive:

    Cara Rosa,
    lei è troppo buona. Così mi vizia, va a finire che quasi quasi ci credo.
    Enrico Fiore

  5. Rita Montes scrive:

    Caro Enrico,
    all’Accademia ci insegnavano storia del teatro, e le tue recensioni mi ricordano le lezioni alle quali noi ragazzi assistevamo e di cui eravamo entusiasti, perchè ci avvicinavano al teatro e ci davano strumenti per capire ciò che facevamo.
    Grazie, con tanta stima.
    Rita Montes

  6. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, cara Rita. Curo questo sito senza guadagnarci niente e, anzi, rimettendoci non poco di tasca mia. Ma se riesco a fornire qualche suggerimento utile, come tu hai la bontà di riconoscere, ottengo il migliore dei compensi.
    Enrico Fiore

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