Il Natale nero in cui il capitone diventa un serpente

Lello Arena in un momento di «Parenti serpenti», in scena all'Augusteo

Lello Arena in un momento di «Parenti serpenti», in scena all’Augusteo

NAPOLI – È tornato (adesso viene offerto all’Augusteo) anche «Parenti serpenti», lo spettacolo prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro per la regia di Luciano Melchionna. Ne ripubblico, apportandovi le lievi modifiche imposte da taluni cambi decisi dalla regia, la recensione che scrissi il 28 gennaio dell’anno scorso, in occasione del suo debutto al Cilea.

Il dato significativo del «Parenti serpenti» di cui parliamo è che non si tratta dell’adattamento dell’omonimo film di Monicelli del ’92, ma dell’allestimento della commedia di Carmine Amoroso da cui quel film venne tratto. E la differenza, ovviamente, non è di poco conto.
Prima di procedere, però, sarà opportuno ricordare la trama.
Come ogni anno, i figli – Alfredo, la vedova Milena, Alessandro con la moglie Gina e Lina col marito Michele – vanno a passare il Natale in un paesino dell’Abruzzo, a casa degli ormai vecchi genitori Saverio, appuntato dei carabinieri in pensione, e Trieste, il proverbiale angelo del focolare. Ma stavolta capita una novità, che Saverio e Trieste annunciano di voler trascorrere quanto gli resta da vivere con uno (scelgano loro quale) di quei figli, dando in cambio, appunto, la pensione e la casa. E si scatena, allora, la ridda dei rancori e degli egoismi. Finché Alfredo, Milena, Alessandro e Lina decidono di risolvere il problema semplicemente eliminandolo: ammazzano i genitori, servendosi della stufa a gas portata in regalo.
Ebbene, ciò che innanzitutto distingue la commedia di Amoroso rispetto al film di Monicelli è il fatto che affida il ruolo di io narrante non a un bambino, ma allo stesso Saverio: col che, s’intende, passiamo da un simbolo del futuro e, quindi, della speranza a un simbolo (per giunta Saverio non ci sta più con la testa) del passato e, quindi, dell’impossibilità della speranza. E questo surplus di desolazione viene sottolineato, peraltro, dalla strategia – disinvolta e gelida insieme – che presiede allo sviluppo del testo. Nel quale i segni del disagio che porterà alla tragedia conclusiva si manifestano con un rilievo via via crescente.
Tutto questo, aggiungo subito, è illustrato dallo spettacolo con una coerenza fra i suoi elementi costitutivi quale assai raramente possiamo riscontrare: a partire dalla scena di Roberto Crea, che ricorda, sì, un presepe, ma rimanda specialmente a un cumulo di detriti, giusto quelli dei sentimenti a mano a mano appassiti. E non da meno risulta la regia di Melchionna, che, per cominciare, avvia l’azione facendo comparire i figli di Saverio e Trieste in un palco di proscenio. Giacché, si capisce, i «serpenti» sono tra noi, anche se non li conosciamo o facciamo finta di non accorgercene.
C’è da dire, poi, che il testo e lo spettacolo si giovano di riferimenti all’attualità (vedi la frecciata contro Forza Italia e Berlusconi) e, in particolare, dei monologhi creati, nella circostanza, su misura per il protagonista Lello Arena. Servono, questi monologhi, non solo a corroborare la rappresentazione in termini di godibilità, ma anche e soprattutto a sottolinearne per contrasto, e dunque con efficacia maggiore, i temi suaccennati. E la stessa funzione svolgono le impagabili citazioni da «Natale in casa Cupiello» («Questo Natale si è presentato […] con tutti i sentimenti») e da «Le voci di dentro» (lo sputo di Zi’ Nicola dal suo mezzanino): servono, in pari tempo, a fornire allo spettatore il rifugio in una tradizione amata e a sottrargli la tranquillità, visto che, lo sappiamo, nelle famiglie Cupiello, Saporito e Cimmaruta i «serpenti» si sprecano e, nel caso di Luca Cupiello, a Natale possono pure sembrare capitoni.
Bellissima e inquietante appare, infine, la sequenza di chiusura. Mentre alla ribalta Saverio, da morto, mormora un suo stanco epicedio («Una vita sola e non sappiamo usarla neanche per volerci bene… una vita sola che così come la viviamo, in fondo, che senso ha?»), giù in platea i «serpenti» si allacciano in un valzer beffardo e immemore. E a questo punto, però, bisogna aprire un capitolo a parte per il Saverio di Lello Arena.
Non la faccio lunga, in proposito. Lello dà luogo a una delle migliori prove d’attore che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni: passa con naturalezza estrema dal grottesco al crepuscolare, dagli scoppi d’ira alle tenerezze, dalle fughe nel surreale alle accensioni della più sanguigna comicità, facendo di quel carabiniere in pensione un fantaccino – divertente e commovente insieme – che non sarà facile dimenticare.
Accanto a lui si segnalano innanzitutto Giorgia Trasselli (Trieste) e Annarita Vitolo (Lina). Ma si comportano a dovere anche gli altri: Fabrizio Vona (Alfredo), Autilia Ranieri (Milena), Andrea de Goyzueta (Alessandro), Carla Ferraro (Gina) e Raffaele Ausiello (Michele). Insomma, vale proprio la pena di fare un salto all’Augusteo: non ve ne pentirete.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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