Adesso le «ragazze sole» hanno l’esperienza delle ragazze vere

Da sinistra, Enzo Moscato, Tonino Taiuti, Silvio Orlando e Annibale Ruccello, interpreti nel 1985 della prima edizione di «Ragazze sole con qualche esperienza»

Da sinistra, Enzo Moscato, Tonino Taiuti, Silvio Orlando e Annibale Ruccello,
interpreti nel 1985 della prima edizione di «Ragazze sole con qualche esperienza»

NAPOLI – Ovviamente, non è stata la nostalgia che mi ha spinto a mettere in testa a quest’articolo non una fotografia dell’allestimento di «Ragazze sole con qualche esperienza» di Enzo Moscato che lo Stabile di Napoli e Teatri Uniti presentano al San Ferdinando per la regia di Francesco Saponaro, ma la fotografia in cui compaiono i quattro protagonisti del primo allestimento di quella commedia, datato 1985. È una fotografia dolce e terribile insieme: perché, mentre ridesta l’aura degli affetti, costituisce una testimonianza probante dell’autentico abisso scavatosi fra la Napoli di allora, in cui c’era il teatro (intendo il teatro vero, che cercava di aprirsi nuove strade al di là di una tradizione ormai sterile e contro l’opportunismo consumistico), e la Napoli di oggi, in cui, al posto del teatro di allora, c’è la riscoperta del conformismo nel solco dei vecchi e mai dimenticati compromessi.
Come sappiamo, la storia narrata in «Ragazze sole con qualche esperienza» è quella di due travestiti, Grand Hotel e Bolero Film, e di due scalcagnati delinquenti, Scialò e Cicala. I quattro si son conosciuti attraverso la posta di «Cronaca Emarginata», un giornaletto per cuori solitari. Ma quando Scialò e Cicala escono dal carcere e raggiungono a casa loro Grand Hotel e Bolero Film, si scoprirà a poco a poco che sono dei «pentiti» e che, pur essendosene innamorati, i due travestiti hanno ricevuto dalla camorra l’ordine (del resto lo stesso ricevuto in tante altre occasioni simili e che in tante altre occasioni simili riceveranno anche in futuro) di farli fuori.
Senonché, come lo stesso Moscato ha dichiarato, questa storia è solo un pretesto. Il vero tema sul tappeto è lo scarto fra i sogni e la quotidianità: e anche, o soprattutto, fra l’illusione e la realtà, fra la tensione verso l’identità e la libertà e la coscienza di soffocare nell’anonimato di un ghetto (in ogni senso: spirituale, sociale, culturale) invalicabile. E quel tema s’incarna in uno scontro di linguaggi. Poiché giova ricordare che proprio «Ragazze sole con qualche esperienza» avviò il fondamentale discorso sulla lingua che caratterizza il teatro di Moscato.
Non a caso, a far da megafono a quel discorso, che avrebbe determinato una radicale frattura rispetto alla lingua della tradizione, per l’allestimento del testo in parola si creò, giusto nel 1985, un vero e proprio fronte comune fra alcuni dei più rappresentativi esponenti delle nuove leve di drammaturghi, registi e attori della sperimentazione teatrale napoletana: lo spettacolo, infatti, andò in scena all’Ausonia, un teatro abbandonato (e vicino, quasi un simbolo, al San Ferdinando) preso in gestione da Maria Luisa e Mario Santella; e annoverava come interpreti – accanto a Moscato – Annibale Ruccello, Silvio Orlando, Tonino Taiuti e Gino Curcione, mentre firmava la regia lo stesso Mario Santella.
Aggiungo, in breve, che il citato discorso sulla lingua prende corpo per mezzo del conflitto che, specularmente, Moscato determina tra le due coppie di personaggi in campo: un conflitto che traduce, per ripetere le parole che lo stesso Moscato scrisse nel programma di sala, uno «spaccato linguistico della e sulla “lingua” napoletana: dalla parlata italianistica, pseudo colta e piccoloborghese, all’emersione del plebeo più vivace (soprattutto in Grand Hotel e Cicala), dal linguaggio mass-mediale, acritico e di riflusso, all’argot, alla gergalità più criptica e interna dei gruppi minoritari, siano essi geneticamente ladri, prostitute o omosessuali».
Fornisco un esempio di ciascuna di queste varianti linguistiche. Per quanto riguarda la «parlata italianistica, pseudo colta e piccoloborghese», basta citare una battuta di Scialò, che sembra scaturire direttamente dall’infinito repertorio di frasi fatte proprio di una certa narrativa popolaresca o di certi «sceneggiati» televisivi: «Decidemmo allora di cambiare vita, di non tornare più in quell’inferno di inutile criminalità. Di rompere, come suol dirsi, col passato. E un giorno, quasi per miracolo, l’occasione di voltar pagina ci venne finalmente offerta». Per ciò che invece concerne l’«emersione del plebeo più vivace», ecco come Bolero Film apostrofa Grand Hotel già in apertura del testo: «Grand Hotè?!… Hê fernuto ‘e cantà? Hê fernuto, siiì? Te vulisse decidere a vuttà ‘e mmane? Vulisse arrivà cu stu sfaccimm’ ‘e bicchiere? Siiì? Mò jetto tutte cose pe ll’aria e me ne vaco!!». Il «linguaggio mass-mediale, acritico e di riflusso» viene, a sua volta, tradotto da battute come questa, pronunciata da Grand Hotel: «Chi so’ sti mummie egiziane ca tirate fore quanno ve vestite ‘a sera? Renata Mauro, Gabriella Farinon, Virna Lisi in “Orgoglio e pregiudizio”, uhè?! Sequenza! Viva la vita! Viva l’attualità! Viva noi della zona Bassa e Centro!». E infine, un ottimo esempio della «gergalità più criptica e interna dei gruppi minoritari» ce lo offre Cicala: «Però, cocche vota, chella vita, era proprio “toca”, eh? Azzò! Era proprio sfaccimme! Quanno, cammenanno, me tuccavo ‘o piezzo ‘e fierro ‘int’o cazone, sanghe d’ ‘a marina, ma me sentevo proprio coccheduno!».
Quei personaggi, insomma, non sono che proiezioni di Napoli. Di una Napoli che – di fronte all’impossibilità di produrre sul versante del sentimento – è dedita a una perenne autorappresentazione, per l’appunto travestendosi con le parole nell’alveo di una diffusa canalizzazione dell’apparato culturale e delle relazioni interpersonali. In definitiva, e lo dimostra anche il coevo teatro di Annibale Ruccello, ci troviamo al cospetto di una corrusca e inquietante applicazione della teoria sartriana del linguaggio come «corpo verbale».
Ecco, tutto questo, e molto altro, si trovava (e chiedo scusa, ancora una volta, dell’autocitazione) nel mio saggio «Il rito, l’esilio e la peste», in particolare, s’intende, nella sezione dedicata a Moscato. Un saggio che volle fortemente (e lo pubblicò in una collana della sua preziosa Ubulibri) il caro e indimenticabile Franco Quadri, che altrettanto fortemente amava e stimava Moscato: al punto di assegnargli, e proprio nel 1985, quel Premio Riccione che ad Enzo valse il lancio sul piano nazionale. E a «Il rito, l’esilio e la peste» io e Franco, ciascuno per la sua parte, lavorammo a lungo e con dedizione assoluta. Finché, nell’imminenza dell’uscita, lui mi scrisse una lettera per dirmi, fra l’altro: «Al suo terzo e definitivo stadio il libretto mi è sembrato veramente arricchito, completato e bellissimo: in particolare la sezione dedicata a Moscato, nella complessità comunque leggibilissima a cui è approdata, mi sembra un capolavoro, per la compattezza con cui i riferimenti si rincorrono e conducono a una lettura organica di un’opera non semplice ma importante anche nella sua unitarietà grazie alla tua napoletanità, alla tua cultura, ma soprattutto alla passione che tutto trasfigura. Sono molto contento, anzi orgoglioso, di questa “collanina”, che spero destinata a una fortuna non meramente specialistica».
Ma ora, nell’allestimento di «Ragazze sole con qualche esperienza» in scena al San Ferdinando, i travestiti Grand Hotel e Bolero Film sono interpretati da due donne, rispettivamente Lara Sansone e Veronica Mazza. Non avevamo capito niente. Non avevo capito niente io, non aveva capito niente Franco Quadri e forse non aveva capito niente anche Enzo Moscato. Ha capito tutto Saponaro.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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4 risposte a Adesso le «ragazze sole» hanno l’esperienza delle ragazze vere

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Una serata imbarazzante.
    Sembrava un incubo o uno scherzo di cattivo gusto.
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Purtroppo, caro amico, non era né un incubo né uno scherzo di cattivo gusto. Era soltanto l’ennesima dimostrazione di quanti danni possano fare al teatro (o a ciò che ne rimane) la stupidità, l’ignoranza e la malafede.
    Enrico Fiore

  3. Fiorenzo de Marinis scrive:

    Vorrei presentarmi: sono l’autore di questa foto, come di tutte le foto di e fuori scena che si produssero per “Ragazze sole con qualche esperienza” nell’edizione del 1985. E in quel caso ero anche l’aiuto regista di Mario Santella. Non ho visto questo nuovo allestimento della commedia di Moscato, ma ho letto con molto piacere la sua recensione alla messinscena dell’85.
    Fiorenzo de Marinis

  4. Enrico Fiore scrive:

    La ringrazio per aver letto “con molto piacere” la mia “recensione alla messinscena dell’85” di “Ragazze sole con qualche esperienza”. Proprio così, ha detto benissimo: l’articolo in questione evita di proposito qualunque commento alla messinscena diretta da Saponaro, limitandosi a constatare che – solo per il fatto di aver attribuito a due donne i ruoli dei travestiti Grand Hotel e Bolero Film – quella messinscena è, puramente e semplicemente, inammissibile e inaccettabile. Ma la ringrazio, anche e soprattutto, proprio per la sua foto, che, come ho scritto, costituisce una testimonianza decisiva del divario esistente fra la Napoli teatrale (e non solo) di allora, ricca di fermenti e di risultati, e la Napoli teatrale (e non solo) di oggi, oltremodo povera d’iniziative e di progressi.
    Enrico Fiore

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