NAPOLI – Ormai dovrei averci fatto il callo, lo so. E invece per l’ennesima volta sto qui a chiedermi se e quando i teatranti la smetteranno finalmente di spacciare i loro spettacoli per quello che non sono.
L’annoso e del tutto retorico interrogativo me lo son riposto, adesso, a proposito di Biagio Izzo, protagonista della commedia di Lucio Aiello, «Dì che ti manda Picone…», che la compagnia Enfiteatro presenta al Diana per la regia di Giuseppe Miale di Mauro. Izzo ha dichiarato ai giornali: «Per la prima volta in teatro non interpreto un personaggio comico», aggiungendo: «È uno spartiacque della mia carriera». Ma io, s’intende, nemmeno per un nanosecondo mi sono illuso che lui si fosse volto, che so, a «Edipo re» o a «Macbeth». E infatti, vedendo l’allestimento di «Dì che ti manda Picone…» dopo aver letto attentamente il testo di Aiello, ho ritrovato il Biagio Izzo di sempre, che sovraccarica il copione, già di per sé sostanzialmente orientato verso il facile intrattenimento, dei suoi soliti lazzi, smorfie, gag e battutine a soggetto, di nient’altro preoccupato che di strappare non meno facili risate.
Ne volete un esempio? Al senatore Ferdinando Cafiero Palma, che gli ha detto: «E noi che pensavamo di insegnarvi la politica!… Voi siete un maestro!», l’Antonio Picone formato Biagio Izzo replica con la battuta, plateale e del tutto inventata rispetto al testo: «Site vuie ca site ‘na chiaveca!». E scattano, ciò ch’era nei voti, un sollazzo e un applauso da ideale antologia del qualunquismo. Mentre io mi affretto a spiegare, in breve, chi sono i personaggi citati.
Ovviamente, i due atti di Aiello prendono le mosse dal film di Nanni Loy «Mi manda Picone». Ma vertono (giusto il sottotitolo: «Antonio Picone fu Pasquale») sul figlio dell’operaio che, durante una seduta del consiglio comunale di Napoli, si diede fuoco con la benzina per protestare contro il suo licenziamento dall’Italsider. Antonio Picone ha cinquant’anni ma – dice una nota dell’autore – «conserva le peculiarità caratteriali di un ragazzino: incompiuto, inaffidabile, immaturo. Un eterno bambinone incapace di prendersi alcuna responsabilità». Sicché, quando il senatore di cui sopra viene a proporgli di candidarsi alle elezioni (lo scopo, si capisce, è quello di utilizzarlo come il proverbiale uomo di paglia), il nostro Antonio davvero non sa che pesci pigliare: mettersi in tasca i soldi che deriveranno dalla losca operazione o seguire i dettami della morale che gli ha lasciato in eredità il «martire del lavoro» suo padre?
Auspice la fidanzata spagnola Mara, che con tutta una serie di espedienti gli fa credere che in casa si aggiri, per l’appunto, il fantasma del fu Pasquale Picone, Antonio alla fine diventerà, sì, deputato, ma in Parlamento ci andrà solo per combattere il malaffare praticato da chi lo ha fatto eleggere. Ed è un autentico e sperticato trionfo del buonismo: giacché, come si ricorderà, il Pasquale Picone del film di Loy giungeva a rivelarsi, nella realtà, come un imbroglione colluso con camorristi, protettori, spacciatori e falsari.
Del resto, non ci si poteva attendere un esito diverso da un copione che, strutturato di fatto come un susseguirsi di sketch da avanspettacolo (vedi, fra l’altro, la conseguente presenza di non pochi personaggi largamente pleonastici, quali il ritardato mentale Nicolino, il parroco Capone, il direttore dell’istituto per non vedenti Paudice e la psichiatra De Franchis), cerca di salvarsi l’anima scoprendo qua e là l’acqua calda, o nell’ambito di un ribadito qualunquismo («Ognuno tiene la morale sua, e pure quella cambia a seconda dei momenti, delle necessità») o sul piano di un’abborracciata e lacrimevole analisi sociologica («Gli eroi sono quelli che, tutti i giorni, senza parlare, senza gesti eclatanti, si arrampicano su quella montagna ripida e invalicabile che è la vita di una famiglia: ‘e libri per andare a scuola, le scarpe… magari un numero più grande “p’a crescenza”… e comme cresceno ‘e piedi d’e creature! Un abitino nuovo, al mercatino, per la moglie… e domenica, forse, ‘na pizza»).
Gl’interpreti, per concludere? Accanto a Biagio Izzo (Antonio Picone, naturalmente) e alla decorativa Rocío Muñoz Morales (Mara), i più funzionali al disegno complessivo dello spettacolo mi sembrano Mario Porfito (Raffaele Terranova), Antonio Romano (il parroco Capone) e lo stesso Lucio Aiello (Paudice). E riguardo al regista, c’è da constatare solo che Giuseppe Miale di Mauro pare aver dimenticato, e molto in fretta, la fede nel teatro impegnato che proclamava al Nest.
Enrico Fiore