Quando la Falce e il Martello ballavano il «lissio»

Da sinistra, Giovanni Dispenza, Andrea Lupo e Micaela Casalboni in un momento di «Casa del Popolo» (le foto dello spettacolo sono di Luciano Paselli)

Da sinistra, Giovanni Dispenza, Andrea Lupo e Micaela Casalboni in un momento di «Casa del Popolo»
(le foto dello spettacolo sono di Luciano Paselli)

SAN LAZZARO DI SAVENA – Erano diversi anni che mi arrivavano comunicati e inviti da parte del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena, una cittadina di trentaduemila abitanti alle porte di Bologna. E non avevo mai risposto, un po’ per i troppi impegni che s’affollavano nella mia agenda e un po’, dico la verità, perché mettevo in conto il rischio dei facili entusiasmi e delle approssimazioni che di solito induce la provincia. Ma poi, qualche settimana fa, m’è giunto un ennesimo comunicato del Teatro dell’Argine che ha cambiato totalmente le cose.
Non avevo nemmeno letto il titolo dello spettacolo di cui si parlava. Gli occhi si son subito soffermati sulle note del regista Andrea Paolucci. Perché erano diverse da quelle che leggo ormai da più di mezzo secolo, solitamente inutili (un regista, se ha qualcosa da dire, deve dirlo dal palcoscenico) e non di rado marchiate da sciocchezze. Qui si avvertiva che Paolucci affrontava un argomento che gli apparteneva: che apparteneva, intendo, alla sua vita di uomo prima che a quella di teatrante.

Giorgio Gaber

Giorgio Gaber

Parlava, Paolucci, del popolo. E scriveva: «Di solito viene evocato, ridotto a puro suono, nei dibattiti politici o nei comizi di piazza. Ma da qualche parte, come residuo di un mondo in via di estinzione, si aggira ancora un’umanità dedita al liscio, al burraco, ai quartini di vino e alle liti furiose per una giocata di briscola finita male. Vive in luoghi dove ci sono tavolini, banconi di bar, campi di bocce e tavole calde che sfornano enormi piatti di tagliatelle. Sverna e villeggia lì, giorno dopo giorno, anno dopo anno, mentre un altro popolo, più moderno ed efficiente, marcia con sicurezza nei corridoi di nuovi luoghi ricreativi, chiamati ipermercati. Non a questi – a nostra volta improduttivi e inattuali come tutti i teatranti – ci siamo dedicati, ma ai primi, rubandone voci, storie, dialoghi, atmosfere: per capire se il popolo (ammesso che esista) ha ancora una casa dove poter abitare».
Infatti, lo spettacolo che m’accingo ad esaminare – allestito dal Teatro dell’Argine in collaborazione con il Teatro delle Temperie – s’intitola proprio «Casa del Popolo». E immediatamente, appena ho finito di scorrere le note del regista, me ne son fatto mandare il testo: anche perché l’ha scritto quel Nicola Bonazzi che, fra l’altro, fu l’autore insieme con Mario Perrotta, uno fra i più significativi narratori civili che annoveri il nostro teatro, di «Italiani cìncali!», l’allestimento che, avendo il merito di farlo senza indulgere a pietismi o polemiche risentite, rievocava – sulla base di ricerche d’archivio e testimonianze dei protagonisti – la drammatica e misconosciuta odissea dei nostri emigranti che nel secondo dopoguerra andarono a scavare, e spesso a morire, nelle miniere del Nord Europa.
L’ho letto, il testo di Bonazzi, mentre in treno andavo a Milano a vedere «Il giardino dei ciliegi» firmato da Dodin. E mi si son riempiti gli occhi di lacrime, per più di quattro ore di seguito. Poiché da quelle pagine balzava fuori un mondo intero, il mondo, oggi scomparso, fatto d’idee e di sentimenti, e delle azioni concrete in cui le idee e i sentimenti naturalmente si traducevano.
Ora, «il materiale di partenza dello spettacolo», avverte il comunicato del Teatro dell’Argine, «consiste in decine e decine di interviste condotte con persone di diversi caratteri, età, manie, in numerosi centri ricreativi dell’Emilia intorno a Bologna». E già per questo, quando gliene ho parlato, s’è detto molto interessato all’operazione anche un antropologo della statura di Marino Niola. Ma il gran pregio del testo di Bonazzi e dello spettacolo che ne discende sta nel fatto che non sono un’esaltazione nostalgica del Partito Comunista, che pure fu, per l’appunto, il «padre» delle Case del Popolo. La parola «comunista» ricorre, e di sfuggita, non più di due o tre volte. Ciò che invece s’impone, con forza concettuale e capacità di fascinazione straordinarie, è l’idea comunista, ovvero l’idea di una società e di una convivenza di uguali.

Ruggero Passarini

Ruggero Passarini

Basta a dimostrarlo il seguente brano del prologo: «Sai una cosa?» – «Cosa?» – «Io vado» – «Dove?» – «Non so, ma sento di dover andare. Dritto, con la fronte alta, il petto in fuori. Vieni?» – «Ci penso» – «Come ci pensi? Se pensi non vieni» – «Allora non vengo» – «E di là, non sei curioso di sapere cosa c’è di là?» – «Di là dove?» – «Di là dall’orizzonte, di là da tutto. Di là da me, da te, dalla nostra miseria. Ci sarà qualcosa» – «Lascia che ci sia» – «Non posso. Ho come un impulso, non riesco a fermarmi. Tu no?» – «Io veramente stavo andando dall’altra parte» – «E dall’altra parte cosa c’è?» – «C’è casa mia» – «Casa tua la conosci. Devi cambiare direzione, vieni con me, dammi la mano. Ecco, vedi, è facile. In due ci si fa compagnia, in due forse si arriva» – «Io non so se arriviamo» – «Non importa, intanto andiamo. E non dimenticarti di guardare» – «Cosa?» – «Di là dall’orizzonte, di là da me e da te, di là da tutto. Prova a guardare, fallo per loro» – «Loro chi?» – «La gente»…
Non sentite l’eco del Gaber di «Qualcuno era comunista»? «Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri». E se all’obiezione che pone il secondo dei due interlocutori in questione («Basta. È troppo tempo che camminiamo, e di là dall’orizzonte non ci siamo ancora arrivati») il secondo risponde: «Ascolta: l’orizzonte non è fatto per essere raggiunto, l’orizzonte è fatto per continuare a camminare», non sentite l’eco di Wolf Biermann, il poeta e cantautore di Berlino Est? «[…] può darsi che un giorno / sarà tutto raggiunto. / E non avrò raggiunto / che un nuovo inizio daccapo». Ma destano echi coinvolgenti un po’ tutti gl’impagabili personaggi in cui qui c’imbattiamo. Per chiudere con gli esempi, Liberata Mazzetti detta la Sboldrona, «donna di costumi non illibati» ma che «l’amore non lo fa per interesse», richiama evidentemente la Bocca di Rosa di De André.
Tuttavia, è lo straniamento ironico l’altro pregio decisivo dello spettacolo. S’immagina l’assemblea tenuta il 26 novembre 1917 (un mese dopo la Rivoluzione d’Ottobre!) in un paese della Bassa Padana, presso l’osteria Ca’ dei Coppi di Sandrone Quercioli detto Butafògh, per la costituenda sede della cooperativa di consumo Leone Troschi (ogni riferimento a Lev Trotskij è puramente voluto) Maccaferri. E il verbalizzante Augusto Strazzari precisa subito: «[…] son detto Salame perché mi piace l’alimento e non per un fatto di scarso comprendonio». Col che, di botto, l’atmosfera di quella che sarà una Casa del Popolo viene icasticamente ricondotta alla notoria passione per la cucina della gente che la frequenterà. Così come, quando il presidente dell’assemblea, il medico condotto Cesare Garuti, spiega che lotta proletaria vuol dire lotta «del popolo, per il popolo», a porgli la sottile obiezione «del popolo o per il popolo?» è Adelmo di Maria Noferini, detto Delmo: «nullatenente, nullafacente e anche abbastanza nullo di comprendonio, stato più volte all’ospedale dei matti».
Si capisce, poi, che l’assemblea di quel 26 novembre 1917 diventa lunga un secolo; e che il microcosmo della Casa del Popolo immaginata nella circostanza si trasforma a poco a poco in un macrocosmo, nello specchio in cui si riflettono le vicende capitali dell’Italia: dall’avvento del fascismo al dopoguerra, dal «boom» economico all’emigrazione dal Sud al Nord, dai cortei degli extraparlamentari alle bombe dei terroristi. E qui la risposta del solito Delmo, che tira fuori una pistola Beretta quando il presidente Garuti propone di opporre a Mussolini soltanto la «dignità», si combina – mentre desta ancora un eco, quello di Ritsos («ci aspettano i nostri figli per impastare la polvere da sparo come allora impastavamo il pane e trasportare pallottole come se portassimo il vassoio coi confetti e accendere la miccia della dinamite come un tempo accendevamo la lucerna») – con il sarcasmo di estrazione dichiaratamente politica («questo nuovo partito chiamato Democrazia Cristiana, che in quanto democrazia, ovvero potere del popolo, sta simpatico a tutti, ma in quanto cristiana, ovvero dalla parte dei preti, sta sui maroni a tutti»).

Un altro momento di «Casa del Popolo», in scena nel Teatro dell'Argine di San Lazzaro di Savena

Un altro momento di «Casa del Popolo», in scena nel Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena

Per giunta, compaiono anche i fantasmi. Come quello del Catuvén ucciso da un fascista, che si presenta nella Casa del Popolo a raccontare della contadina che ha cominciato a cantargli una ninna nanna «così dolce che è stato bello addormentarsi piano piano sotto il sole in mezzo ai fili d’erba che m’accarezzavano la faccia». Ma pure il fantasma di Catuvén ribadisce l’idea del legame comunitario. Conclude il racconto dicendo: «E allora son venuto a chiedere se qualcuno può venire a prendere sulla mia tomba il mio cappello, ve l’ho lasciato lì. Che magari vi serve ancora».
Sì, ha proprio ragione, Salame, quando esclama: «[…] è qui, in mezzo a tutta questa umanità, che ripulisco e correggo il mio verbale a futura memoria. E non c’è nessun altro posto al mondo dove adesso vorrei stare, se non qui, con la mia gente, nella nostra casa».
Ma infine, ciò che risulta fuori del comune (e parlo del testo e dello spettacolo insieme) sta nella capacità di fondere – senza parere, e anzi con tono lieve, aperto in pari tempo al sorriso complice e alla comicità ruspante – i bisogni dell’anima (ovvero l’ideologia) e quelli del corpo (ovvero il cibo, appunto, e il sesso su tutti). S’allacciano qui nel liscio (anzi, obbligatoriamente, nel «lissio») Marx e il lambrusco, giusta la formidabile coppia formata dalla Falce e dal Martello specialisti del valzer della Rivoluzione nella balera della Storia. E a proposito della fusione tra l’anima e il corpo, e per restare nel tema, a me viene in mente Ruggero Passarini, il re della Filuzzi (l’interpretazione emiliana del «lissio») e l’ultimo grande specialista della fisarmonica (anzi, per essere precisi, dell’organino bolognese).
Vedetelo e sentitelo (è su You Tube) mentre esegue «La paloma». E ditemi se siete capaci di stabilire dove finisce il suo corpo e comincia l’organino, e se c’è una pur minima distanza fra le note che escono dallo strumento e i respiri che escono dal petto (e dal cuore) di Passarini.
La conclusione di «Casa del Popolo» è gelida e sconfortata. Fuori c’è una nebbia che non si dirada, tanto che Salame dice al presidente: «Sembra che non stiamo da nessuna parte». E arriva un monologo che termina con queste parole: «Sono così stanco che mi ammazzerei. Quasi quasi mi ammazzo. Tanto son da solo. Non ho mica problemi. Perché il popolo sono io. Io sono il popolo. E siccome sono il popolo si fa quello che dico io. E basta».
Però, quel che c’era prima ci si rivela troppo importante perché possa essere dimenticato. Ed è questo il messaggio che in definitiva trasmette lo spettacolo del Teatro dell’Argine e del Teatro delle Temperie. E non dico quanto siano bravi, perché sono bravi in maniera «indicibile», gli attori ai quali è affidato un simile messaggio, Micaela Casalboni, Giovanni Dispenza e Andrea Lupo. Dico, invece, che «Casa del Popolo» mi ha fatto tornare il ricordo di Pasquale Lamanna, il mio professore d’italiano nel liceo «Plinio Seniore» di Castellammare di Stabia. Alla scuola non credeva più e aveva tentato un paio di volte il suicidio. Ma quando capitava la giornata buona svolgeva lezioni meravigliose. E ripeteva sempre che, se un uomo pensa qualcosa di bello, quel pensiero non si perde, resta nell’aria; e prima o poi ci sarà un altro uomo che lo raccoglierà.
Ecco. Non si era perso il pensiero della vecchia che, mentre giravo nella Grecia dei colonnelli portando messaggi degli esuli, a Nuova Tirinto, un povero villaggio di pastori, mi cedette il suo letto, mettendosi, lei, a dormire sulla terra nuda. Non si era perso il pensiero del mio compagno Michalis Lilis, che non riuscì a vedere la Grecia finalmente liberata, morendo sul traghetto dieci minuti prima di arrivare a Patrasso. Non si era perso il pensiero del vecchio che – durante la Rivoluzione dei Garofani, dopo il comizio che Álvaro Cunhal, il leggendario segretario del Partito Comunista portoghese, aveva tenuto al rientro dall’esilio nel Palazzetto dello Sport di Lisbona, con L’Internazionale cantato all’unisono in tutte le lingue d’Europa – comprò un palloncino rosso e ne legò il filo al polso di un bambino di pochi mesi in braccio alla madre.
Nel tempo della menzogna e della vigliaccheria sono ricomparsi, quei pensieri, in una sera di freddo carogna, in una periferia solitaria, in un piccolo teatro, nel piccolo spettacolo di due piccole compagnie coraggiose.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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