Un gioco di specchi
fra la Morea e la Ferri

Antonella Morea in un momento di «... Io la canto così!»

Antonella Morea in un momento di «… Io la canto così!»

Si presentò al provino per «La Gatta Cenerentola» acconciata e truccata esattamente come colei che era il suo mito e il suo modello: capelli biondi a caschetto con la frangia sugli occhi bistrati di nero e la faccia sepolta sotto una lapide di cerone bianco. E al termine Roberto De Simone le disse: «Signorina, per me va bene, ma mi faccia la cortesia, domani, se può fare questa cosa per me, si toglie questo trucco, si fa una tinta, un cachet, non so come si chiama, perché debbo vedere là sotto che cosa ci sta».
Ecco, basterebbe questo piccolo ricordo a illustrare che cos’è «…Io la canto così!», lo spettacolo (sottotitolo «Omaggio a Gabriella Ferri») che Antonella Morea ha presentato al Sancarluccio, nell’ambito della rassegna «Girls», su testo suo e di Fabio Cocifoglia: in breve, è un gioco di specchi fra l’interprete e l’oggetto della sua interpretazione, la zingara di Testaccio che per sempre ci rubò il cuore con quegli occhi che piangevano ridendo e quella voce impastata di vento e di terra.
Si mescolano, quindi, le biografie della Ferri e della Morea: a partire dal padre di Gabriella, che faceva il carrettiere ma scriveva canzoni, accostato allo zio Renato Carosone, che si metteva sulle ginocchia Antonella e le cantava al pianoforte i suoi travolgenti motivi. E il resto lo fanno i successi della Ferri, da «Sempre» a «Remedios», da «Dove sta Zazà» a «La società dei magnaccioni», da «Sinnò me moro» a «Chitarra romana» e «Grazie alla vita».
Ora, non voglio perdere tempo a insistere sulla bravura di Antonella Morea, ben assistita dalla regia dello stesso Cocifoglia e altrettanto bene sostenuta dagli straordinari Edo Puccini alla chitarra e Vittorio Cataldi alla fisarmonica e al violino. Mi limito a constatare che anche in quest’occasione lei si conferma come una delle migliori artiste napoletane nella doppia dimensione di attrice e di cantante. E in breve, il suo spettacolo accoppia l’espressività carnale nostrana con la raffinata stilizzazione dei cabaret parigini «d’antan». Come dire Peppe Barra sotto braccio con Charles Trenet.
Una sola cosa chiederei ad Antonella. Nelle prossime repliche inserisca fra le canzoni «Barcarolo romano». «Più d’un mese è passato / che ‘na sera je dissi “A Nine’, / quest’amore è ormai tramontato”, / lei rispose “Lo vedo da me”». Nessuno ha mai cantato né mai più canterà quei versi da fotoromanzo con l’intensità di Gabriella Ferri. Ci metteva dentro lo strazio della vita che fugge, il brivido delle cose che – come sapeva Corazzini – muoiono un poco ogni giorno.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 17 marzo 2015)

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