C’è un nuovo commissario, si chiama Maigret da Baskerville

Luca Lazzareschi in un momento de «Il nome della rosa», in scena al Bellini

Luca Lazzareschi in un momento de «Il nome della rosa», in scena al Bellini

NAPOLI – Mentre vedevo al Bellini «Il nome della rosa», mi son chiesto che cosa avrebbe pensato Umberto Eco di fronte a questa versione teatrale del suo strepitoso best seller, firmata da Stefano Massini e allestita dagli Stabili di Torino, di Genova e del Veneto. E ho trovato la risposta nell’imprescindibile «Trattato di semiotica generale», pubblicato da Eco nel 1975 e i cui principi teorici fondamentali trovarono evidentissimo riscontro per l’appunto ne «Il nome della rosa», apparso soltanto cinque anni più tardi.
Sappiamo (anche grazie al film che ne trasse Jean-Jacques Annaud, protagonista Sean Connery) che quel celebre romanzo verte sulle indagini che il dotto francescano Guglielmo da Baskerville svolge a proposito delle morti misteriose che si verificano, corrente il 1327, in un’imprecisata abbazia benedettina dell’Italia settentrionale.
Ma questa, che ho ricordato in estrema sintesi, è appena la trama. Invece, la sostanza (nel significato latino, «ciò che sta sotto») de «Il nome della rosa» discende giusto dal «Trattato di semiotica generale», in particolare dal passo: «Usualmente un solo significante veicola contenuti diversi e interallacciati», e «pertanto quello che si chiama “messaggio” è il più delle volte un testo il cui contenuto è un discorso a più livelli». Infatti, e davvero non a caso, ne «Il nome della rosa» tutto ruota intorno alla labirintica biblioteca dell’abbazia, nella quale si può entrare unicamente per accessi segreti, e a un libro scomparso, che poi si scopre essere il secondo libro della «Poetica» di Aristotele, dedicato alla commedia e al riso e le cui pagine sono state avvelenate dall’ex bibliotecario Jorge da Burgos perché da lui ritenute capaci di distruggere la sapienza cristiana.
C’è da aggiungere che, nell’opuscolo «Postille a “Il nome della rosa”» allegato all’edizione del 1984, Eco racconta che iniziò a scrivere il romanzo nel marzo 1978, «mosso una un’idea seminale (il corsivo è mio, n.d.r)», l’avvelenamento di un monaco; e va considerato, inoltre, che i materiali di documentazione da lui utilizzati nella circostanza sono, in parte, quelli che già erano stati alla base della sua tesi di laurea, dedicata, figuriamoci, all’estetica di San Tommaso. Senza contare, poiché siamo nel Medioevo, che sullo sfondo di un simile quadro campeggia il magistero teologico di Matteo d’Acquasparta, che fu ministro generale dei frati minori e artefice tra i maggiori, dalla postazione privilegiata della sua monumentale biblioteca, della riscoperta di Aristotele.

Umberto Eco

Umberto Eco

Ovviamente, non si tratta di coincidenze. E perciò ebbe proprio ragione, Umberto Eco, quando – in riferimento all’intrico della trama de «Il nome della rosa», carica di digressioni storiche e filosofiche – osservò che quel romanzo, pensato e scritto con il lucido distacco tipico dello studioso, può essere letto per l’appunto a vari livelli, da quello del «giallo» a quello del libro di citazioni, passando, si capisce, per quello del romanzo d’idee. E tanto basti a dimostrare, insomma, che non è questione di dire che la versione teatrale de «Il nome della rosa» e il suo adattamento da parte del regista Leo Muscato sono fatti bene o sono fatti male, ma è questione di dire che, puramente e semplicemente, la versione teatrale de «Il nome della rosa» e il suo adattamento non si possono fare.
Oltretutto, non dovremmo mai dimenticare l’abisso insuperabile che separa la pagina scritta dal palcoscenico. E sta lì a rimarcarlo un altro passo del «Trattato di semiotica generale», relativo alla distinzione tra i segni verbali e quelli non verbali: «[…] è possibile esprimere lo stesso contenuto sia attraverso l’espressione “il sole sorge” sia attraverso un altro artificio visivo composto da una linea orizzontale, un semicerchio e una serie di linee diagonali che irraggiano dal centro del semicerchio. Ma sarebbe ben più difficile asserire per mezzo di artifici visuali l’equivalente di “il sole sorge ancora“».
Dunque, era fin troppo facile prevedere che, dei vari livelli a cui, secondo Eco, può essere letto «Il nome della rosa», lo spettacolo in questione avrebbe privilegiato quello del «giallo», il più facile e comodo sul piano dell’interpretazione del testo nonché il più adatto alla trasformazione del romanzo in un copione teatrale. E del resto, lo dichiara senza mezzi termini lo stesso Muscato, così concludendo le sue note di regia: «Su uno sfondo storico-politico-teologico, si dipana un racconto dal ritmo serrato in cui l’azione principale sembra essere la risoluzione di un giallo».
Appunto, siamo di fronte (e, insisto, non poteva essere diversamente) a uno spettacolo che respinge sul fondo la decisiva sostanza epistemologica di cui dicevo e porta in primo piano la superficie ininfluente del puro intrattenimento. Infatti, la vicenda che ha come protagonista questo nuovo commissario, Maigret da Baskerville, ci viene raccontata – sono ancora parole di Muscato – «con una lieve leggerezza che possa qua e là sollecitare il riso, con buona pace del vecchio frate Jorge» e che riesca ad «alimentare nello spettatore una dimensione percettiva che lo porti a dimenticarsi, per un paio d’ore, del meraviglioso film di Jean-Jacques Annaud». Con buona pace del vecchio semiologo Umberto e in una dimensione percettiva che porta lo spettatore a dimenticarsi, per un paio d’ore, del tormentoso romanzo di Eco.
Inutile, d’altronde, precisare che il riso qui sollecitato è alquanto diverso da quello che, giusto, approvò Aristotele nella «Poetica», vale a dire un riso opportunamente dosato. E al riguardo il buongiorno si vede dal mattino: giacché, in una delle primissime sequenze, compare un Salvatore che sembra (magari in omaggio al suo bravo interprete, il napoletano Alfonso Postiglione) un misto del Munaciello e di Sarchiapone. Tanto è vero che, dal momento che siamo per l’appunto a Napoli, Postiglione ha guadagnato, l’altra sera, l’unico applauso a scena aperta.

Giovanni  Anzaldo e Luca Barbareschi in un'altra scena dello spettacolo

Giovanni Anzaldo e Luca Barbareschi in un’altra scena dello spettacolo

Parliamo, del resto, di uno spettacolo più labirintico della biblioteca in questione. Poiché, ripeto, quanto ci viene offerto consiste nell’adattamento da parte di Muscato della versione teatrale del romanzo scritta da Massini. Che c’è, quella versione non andava bene? E se non andava bene, al punto che si è deciso di sostituirla con un adattamento scritto dal regista, perché si è continuato a citarla come la fonte principale dell’allestimento? Per giovarsi della pubblicità che può venire allo spettacolo dal nome di Massini?
È certo solo, quindi, che ciò che vediamo e sentiamo va attribuito fondamentalmente a Muscato. Il quale riassume quelli che secondo lui sono i pregi della sua regia in due passi delle note di cui sopra: da un lato tira in ballo «i cartelli di brechtiana memoria e lo straniamento che ha caratterizzato la sua drammaturgia (n.d.r.: la drammaturgia di chi, della memoria?)» e dall’altro dice che nello spettacolo da lui firmato Adso da Melk, l’anziano frate che da giovane fu testimone delle vicende che adesso rievoca, «diventa una figura quasi kantoriana, sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta». E lasciando stare che nella circostanza lo straniamento non è affidato, altro che «cartelli di brechtiana memoria», nemmeno a bigliettini da visita, nel secondo dei passi citati coesistono una sciocchezza e una vanteria infondata, e non si sa se sia maggiore la prima o la seconda.
Kantor non entrava nello spettacolo, era un regista in scena che si limitava a dare gli attacchi alle varie sequenze e ai temi musicali (per esempio allo splendido, straziante valzer de «La classe morta»), mentre qui Adso da Melk è interpretato da un attore (Luigi Diberti, il migliore di quelli in campo) che, in quanto tale, ha le sue battute e, perciò, è parte integrante dell’azione scenica; e, poi, l’invenzione della quale si vanta Muscato va invece attribuita, senz’alcun dubbio, all’Ingmar Bergman de «Il posto delle fragole»: in cui, giusto, il dottor Isak Borg entra da vivo, com’è adesso, nei flashbacks relativi ai propri ricordi, addirittura confrontandosi, da vecchio, col se stesso giovane.
Concludiamo, va’. Mai come in questo caso, per dirla tutta, kolossal è stato sinonimo d’inutilità e di ovvietà: scenografia (di Margherita Palli) e costumi (di Silvia Aymonino) scontati, video (di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii) puramente decorativi, arredi che per alludere ai cambi d’ambiente scorrono su rotaie come in migliaia di altri spettacoli precedenti, un nudo integrale di donna a titolo del proverbiale (ma molto presunto) pizzico di pepe, scheletri e morti ammazzati che calano dall’alto, un sipario interno che scende ogni volta che si deve disporre la scena per l’episodio successivo e – last but not least – una sequenza delle torture inflitte dall’Inquisizione che sembra un Grand Guignol alla maniera della D’Origlia-Palmi.
Come se non bastasse, non più che professionale risulta, infine, la recitazione, attestata mediamente su un tono naturalistico che non prevede scosse di alcun genere, né sotto il profilo dell’allusività né, ci mancherebbe, sotto quello della visionarietà. Nei ruoli principali, accanto ai citati Diberti e Postiglione, Luca Lazzareschi (Guglielmo da Baskerville), Eugenio Allegri (Ubertino da Casale e Bernardo Gui), Bob Marchese (Jorge da Burgos), Giovanni Anzaldo (il giovane Adso) e Marco Zannoni (l’abate).
Ma s’impone, per chiudere davvero, la stessa domanda che mi hanno suggerito tanti altri spettacoli d’oggi: se poi si doveva ridurre a un raccontino qualsiasi il vertiginoso romanzo di Umberto Eco, se poi si doveva contraddire il vecchio frate Jorge e se poi si doveva far dimenticare il film di Jean-Jacques Annaud, che bisogno c’era di portare in scena «Il nome della rosa»?

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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2 risposte a C’è un nuovo commissario, si chiama Maigret da Baskerville

  1. Fulvio Arrichiello scrive:

    Buongiorno,
    ho sempre piacere a leggere le sue recensioni.
    Resta il fatto che il panorama teatrale italiano mainstream è desolante.
    C’è il teatro diciamo off oppure off-off che resiste. Ma è poca cosa purtroppo.
    Saluti.
    Fulvio Arrichiello

  2. Enrico Fiore scrive:

    Già, purtroppo è così: mentre compagnie che mettono in scena un teatro vicino ai nostri problemi di oggi sono costrette ad arrancare, tre Stabili tre si coalizzano per mettere in scena il proverbiale topolino partorito dalla montagna.
    Ricambio i saluti.
    Enrico Fiore

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