Continua la «festa» di Salemme, ancora più «esagerata»

Vincenzo Salemme in un momento di «Una festa esagerata...!», in scena con grande successo al Diana (le foto dello spettacolo sono di Federico Riva)

Vincenzo Salemme in un momento di «Una festa esagerata…!», in scena con grande successo al Diana
(le foto dello spettacolo sono di Federico Riva)

NAPOLI – Son tornato a vedere «Una festa esagerata…!» di Vincenzo Salemme, che la Diana Or.I.S. ripropone fuori abbonamento. E ho fatto bene: perché, se già molto convinceva e divertiva nella sua prima versione, presentata nel febbraio scorso, adesso la commedia risulta ulteriormente potenziata. Salemme ne ha tolto alcune cose, così da rendere il testo più compatto e lo spettacolo più agile, e ve ne ha aggiunto delle altre, in maniera da rendere ancora più espliciti e intriganti certi snodi concettuali.
Ma vengo subito al dunque, cominciando col ribadire che qui Salemme offre una vera e propria «summa» del suo teatro: per quanto riguarda i contenuti, si comincia con l’immissione nell’impianto farsesco di un retrogusto amaro e si finisce con l’omaggio reso a Eduardo, al fianco del quale lo stesso Salemme iniziò da attore; e, per ciò che attiene alle forme e ai ritmi, si ricorre agli espedienti più accorsati del varietà e dell’avanspettacolo nostrani, primi fra tutti lo slittamento di senso e lo scambio o la stroppiatura delle parole.
Di una simile ambivalenza, che non di rado sfocia in un risentito ossimoro, fa fede già l’attacco del plot: in un palazzo di un qualsiasi quartiere di Napoli, al piano di sopra fervono in casa dell’imprenditore edile Gennaro Parascandolo i preparativi, orchestrati da sua moglie Teresa, della festa per i diciott’anni della figlia Mirea e al piano di sotto dilaga in casa Scamardella il dolore della zitella Lucia per la morte improvvisa del padre novantaduenne Giovanni…
Col racconto della trama, però, non vado oltre, per non togliere agli spettatori il gusto delle continue sorprese che essa riserva. E piuttosto mi soffermo sul citato omaggio a Eduardo, dal quale, manco a dirlo, Salemme mutua nella circostanza il tema dei classici interni/inferni, di quegli «spaccati» familiari nei quali, lo sappiamo, spesso si mangia pane e veleno.
La citazione fondamentale riguarda il dirimpettaio col quale parla Gennaro, evidentemente riferito al Professor Santanna di «Questi fantasmi!». Nella prima versione della commedia si chiamava Eduardo, mentre ora viene chiamato Cupiello. E questo, davvero, mi sembra un autentico colpo d’ala: giacché, insieme, si allude e a «Questi fantasmi!» e a «Natale in casa Cupiello», in modo da esercitare una suggestione maggiore sullo spettatore. Una suggestione moltiplicata, per giunta, dalla non meno rilevante invenzione di sostituire al nome dell’autore il cognome del suo popolarissimo personaggio. E il cerchio si chiude perfettamente, se pensiamo che al presepe già portato alla ribalta da Salemme ne «L’amico del cuore» corrisponde quello a cui, in «Una festa esagerata…!», viene paragonato il panorama che si vede dalla terrazza di Parascandolo, con l’aggiunta della voce registrata di Eduardo che adesso chiede a Gennaro ciò che in «Natale in casa Cupiello» chiedeva a Tommasino: «Te piace ‘o Presebbio? Te piace?».

Vincenzo Salemme in un altro momento dello spettacolo, in scena al Diana fino al 3 dicembre

Vincenzo Salemme in un altro momento dello spettacolo, in scena al Diana fino al 3 dicembre

Questo senza contare l’accenno di Lucia all’«attenzione di lasciare il mezzo portone chiuso», che ovviamente rimanda a «Le voci di dentro», e senza contare, per chiudere con le citazioni, quella della «Livella» di Totò. Mentre, ad allargare l’omaggio all’intera famiglia De Filippo, interviene adesso l’immissione nello spettacolo della canzone di Peppino «Paese mio».
Per quanto concerne, poi, i riferimenti all’attualità, agli anatemi lanciati dal cameriere finto indiano Atzoka («Maledetto Jobs Act» e «Maledetto chi ha abolito l’articolo 18») e all’autentico rap in cui si traduce il dialogo fra Mirea e il fidanzato Alberto, tutto a base delle frasi ridotte a singole parole o a monosillabi che caratterizzano il linguaggio dei giovani d’oggi, si aggiungono ora l’accenno all’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile e una frecciata («il piccolo Cannavacciuolo») alla moda degli chef in tv.
Il resto è affidato, per fare ancora qualche esempio, alle sedie «depilate» invece che impilate e a Teresa che parla della bomboniera («Gennaro, io sono eccitatissima. A proposito, prima che arrivino gli ospiti la vuoi vedere?») mentre il marito capisce che allude a quella sua certa cosa che lui non vede in camera da letto non sa da quanto tempo; ed è affidato, si capisce, soprattutto alla regia infallibile dello stesso Salemme, attentissima nel miscelare gl’ingredienti agrodolci del testo e nel mantenere sempre alto il ritmo dell’azione, nonché all’inconfondibile e impareggiabile cifra espressiva che lo distingue in quanto attore, oscillante con perizia estrema fra l’indolenza e il sarcasmo.
C’è da aggiungere, inoltre, che qui, nel ruolo di Gennaro Parascandolo, Vincenzo Salemme fornisce una delle migliori prove della sua carriera: strappa risate quasi ininterrotte dall’inizio alla fine e tuttavia, fra l’una e l’altra delle tante irresistibili battute e delle non meno caratteristiche e trascinanti accelerazioni a rotta di collo, infila con lucida determinazione sacrosante pause di riflessione, fatte delle vere e proprie rasoiate con cui aggredisce i mali del «condominio» che tutti ci ospita: a cominciare dall’egoismo e dall’ipocrisia per arrivare alla straripante ignoranza della lingua italiana, purtroppo sempre, e tristemente, d’attualità.
Assai funzionale, s’intende, anche l’apporto degli altri interpreti, a partire da Antonella Cioli (Lucia), Teresa Del Vecchio (Teresa), Antonio Guerriero (il secondino), Nicola Acunzo (il prete Don Pasquale) e Vincenzo Borrino (Atzoka). E insomma, come già ho avuto occasione di osservare, Vincenzo Salemme dimostra qual è l’unico modo di onorare davvero la nostra gloriosa tradizione scenica: si tratta di non restarne prigionieri, in una sterile coazione a ripetere, e invece di reinventarla, utilizzandone gli stilemi e i meccanismi quali strumenti per accendere, sia pure in tono lieve, una non inutile indagine sul presente.
Per dire, infine, del successo travolgente che riscuote lo spettacolo, mi limito ad osservare che accomuna le risate a getto continuo degli spettatori in platea e quelle che a stento riescono a trattenere gli stessi attori sul palcoscenico. Davvero una «festa», e ancora più «esagerata».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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