Quei 5200 gol segnati dal centravanti Perlasca

Alessandro Albertin in una scena di «Perlasca. Il coraggio di dire no», presentato all'India dal Teatro di Roma (le foto dello spettacolo sono di Domenico Semeraro)

Alessandro Albertin in una scena di «Perlasca. Il coraggio di dire no», presentato all’India dal Teatro di Roma
(le foto dello spettacolo sono di Domenico Semeraro)

ROMA – «Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca». Sono le parole di Gino Bartali poste in epigrafe a «Perlasca. Il coraggio di dire no», il testo di Alessandro Albertin che il Teatro de Gli Incamminati e il Teatro di Roma presentano all’India, per la regia di Michela Ottolini, nell’ambito del percorso di stagione, «Il dovere della memoria», varato dal Teatro di Roma medesimo. E aggiungo che non poteva darsi epigrafe più indicata.
Bartali, come si sa, fu dichiarato «Giusto fra le nazioni» dallo Yad Vashem, il memoriale israeliano delle vittime dell’olocausto, per aver salvato circa mille ebrei dalla deportazione, trasferendo documenti falsi con la sua bicicletta. Ma, per l’appunto, non amò mai parlare di quell’impresa. E lo stesso fece Giorgio Perlasca, lo «Schindler italiano» (anche lui dichiarato «Giusto fra le nazioni» dallo Yad Vashem) che sottrasse ai campi di concentramento più di 5.200 ebrei ungheresi, spacciandosi, addirittura, per il console di Spagna a Budapest. Della sua impresa si seppe soltanto nel 1988, quando una coppia di quegli ebrei, i signori Láng, lo cercò per ringraziarlo e lo rintracciò nella casa di Padova in cui viveva praticamente ignoto.
Ebbene, il gran pregio del testo di Albertin è che evita il rischio della retorica e dell’afflato «buonistico», sempre presente quando si affrontano argomenti del genere, conferendo al racconto un tono leggero, e persino ironico, che ottiene il non trascurabile risultato di sottolineare per contrasto, e quindi con efficacia maggiore, la drammaticità degli eventi narrati. Basterebbe considerare l’attacco, che immagina, sulla falsariga dei commenti postati nel giorno successivo alle stragi del Bataclan e di Saint-Denis, quelli ipotetici che sarebbe stato possibile postare il 31 ottobre 1944: «Un forte abbraccio a tutti gli amici di Budapest e a tutta l’Ungheria – Voglia di fare le valigie e andare a Budapest, adesso – Sii forte Budapest, sii forte Europa. L’odio, il terrore e la guerra non avranno la meglio – Meno Hitler e più amore – Oggi siamo tutti ungheresi – Io sono ebreo».

Giorgio Perlasca

Giorgio Perlasca

I «like» che Albertin conta per ciascuno di questi commenti rappresentano, manco a dirlo, l’effimero che serve, giusto, a sottolineare per contrasto il dovere della memoria. E infatti, il testo osserva in proposito: «Il problema qual è? Che il tasto non mi piace non esiste e allora diventa automatico omologare e appiattire tutto: sentimenti, stati d’animo, punti di vista. Diventa scontato cliccare mi piace anche su una notizia o un’immagine terribili, perché con quel mi piace quel che si vuol dire in realtà è: “Ok: ho letto, ho visto, ho compreso e sono solidale». E poi: «Una frase ad effetto, semplicemente dettata dall’onda emotiva, o, meglio ancora, un semplice mi piace come commento a una frase ad effetto scritta da qualcun altro, è la soluzione più comoda. Perché è rapida, è indolore e, soprattutto, toglie la responsabilità di dover trasformare un eventuale pensiero in qualcosa di concreto e tangibile, un qualcosa che si chiama azione».
Lo straniamento, peraltro, è assicurato anche dal fatto che qui l’interprete è, insieme, il narratore, Perlasca e tutti i personaggi che con Perlasca interagiscono. E siamo, con ciò, a uno straniamento strutturale. Mentre quello testuale o contenutistico che dir si voglia viene garantito dall’applicazione al racconto della terminologia propria di una partita di calcio: «La squadra era delle migliori: Perlasca col 9 sulle spalle; a centrocampo l’esperienza del capitano Sanz Briz (l’ambasciatore spagnolo a Budapest, n.d.r.); in difesa, la precisione di Madame Tourné (l’assistente di Sanz Briz, n.d.r.); tra i pali, la stazza di Zoltán Farkas (l’avvocato ebreo ungherese che lavora da 25 anni presso l’ambasciata di Spagna, n.d.r.)».

Alessandro Albertin in un altro momento dello spettacolo, in scena fino al 26

Alessandro Albertin in un altro momento dello spettacolo, in scena fino al 26

Quindi, godibilissimi, e insieme assolutamente fondati sul piano storico, risultano i «gol» segnati da una simile squadra: uno per tutti quello che segnano Farkas e Perlasca quando – a Gera, il segretario del Partito delle Croci Frecciate che ha esclamato: «Non posso essere vostro complice in questo schifoso piano di protezione degli ebrei» – rispondono in successione, l’uno dicendo: «Stiamo parlando di sefarditi, signor Gera. La parola sefardita deriva da sepharad, che in ebraico significa Spagna. I sefarditi, quindi, sono ebrei spagnoli» e l’altro precisando: «Avvocato, se permette, è più corretto dire spagnoli ebrei. La differenza, signor Gera, è che quindi prima di tutto sono spagnoli, poi sono ebrei».
Il tutto, infine, si riassume nel seguente passo attribuito al narratore: «Un racconto della tradizione ebraica dice che in ogni momento della storia ci sono, in qualche parte del mondo, 36 Giusti. Nessuno sa chi sono e nemmeno loro sanno di esserlo. Quando, ad un certo punto, il male sembra prevalere sul bene, i Giusti escono allo scoperto e si prendono i destini del mondo sulle loro spalle».
Venendo adesso all’allestimento, c’è da dire che il suo pregio fondamentale sta nel fatto che la regia della Ottolini, attenta e partecipe, risulta estremamente fedele al testo, e proprio a partire dal risalto che dona alla sottolineatura per contrasto e allo straniamento. Vedi, tanto per proporre solo gli esempi più eclatanti, la tenuta (camicia, cravatta e pantaloni neri) attribuita a colui che al «nero» si ribellò fino a rischiare la vita; i due cubi, unici elementi d’arredo nel vuoto circostante, utilizzati dall’interprete per passare, spostandoli, da una situazione narrativa all’altra; e, soprattutto, il leitmotiv costituito da «Sul bel Danubio blu»: che, si capisce, moltiplica l’orrore qui raccontato giusto perché è il simbolo proverbiale della joie de vivre.
Contraddittorie, perciò, appaiono le deviazioni verso il bozzetto naturalistico rappresentate dall’imitazione delle cadenze dialettali dei personaggi. Ma è l’unico neo, d’altronde facilmente cancellabile, di uno spettacolo per il resto notevole. Eccellente, infatti, è la prova fornita da Alessandro Albertin come attore oltre che come autore. E un’emozione pura, infine, regala al termine la voce registrata di Giorgio Perlasca che esorta i giovani a conoscere quanto avvenne e ad opporsi a che si ripeta. È una delle occasioni, ormai sempre più rare, in cui il teatro riscopre la sua naturale funzione di testimonianza civile.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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6 risposte a Quei 5200 gol segnati dal centravanti Perlasca

  1. Gentilissimo signor Fiore, buongiorno.
    Anche a nome di Michela Ottolini, la volevo semplicemente ringraziare per le sue belle parole e per l’accurata analisi che ha fatto del mio spettacolo.
    Ne ha colto tutte le sfumature più importanti, a testimonianza che evidentemente risultano oggettivamente chiare.
    Un cordiale e affettuoso saluto.
    Alessandro Albertin

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile signor Albertin,
    sono io che ringrazio Lei e Michela Ottolini per averci offerto, con questo spettacolo, un’occasione preziosa per riflettere su certe vicende capitali del nostro passato. C’è, oggi, un assoluto bisogno del ricordo di quel passato, perché solo ricordandolo possiamo impedire, come dice Perlasca, che si ripeta, sia pure in altre forme.
    Le ricambio il saluto con cordialità e affetto anche da parte mia.
    Enrico Fiore

  3. Marisa Venturi scrive:

    Da anni ho l’abbonamento a teatro, mi diletto con il teatro; ho visto tantissime produzioni anche importanti ma questa volta, solo questa volta, mi sono emozionata tanto da piangere durante e dopo lo spettacolo. Bravissimo l’attore, Alessandro Albertin, che ha retto magnificamente la sfida del monologo, ed efficace la regia, che con pochi colpi di scena, tempi ben calibrati e cambi di luce ha reso lo spettacolo unico e importante. Grazie.
    Marisa Venturi

  4. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signora Ventura,
    constato che siamo perfettamente d’accordo. E grazie a lei per l’attenzione e l’intervento.
    Enrico Fiore

  5. Alessandro Albertin scrive:

    Gentilissimo signor Fiore, buon pomeriggio.
    Si ricorderà senz’altro del mio spettacolo su Giorgio Perlasca, da Lei visto al Teatro India di Roma ormai quasi quattro anni fa e recensito in modo assai lusinghiero in questo sito.
    Utilizzo questo spazio perché non saprei in quale altro modo poterLa contattare.
    Sapendo della Sua familiarità con la città di Napoli, le volevo chiedere la cortesia d’indicarmi il teatro o i teatri cittadini dove, a Suo parere, questo spettacolo potrebbe trovare un’idonea collocazione.
    La ringrazio sin d’ora per il tempo che potrà dedicarmi.
    Un caro saluto.
    Alessandro Albertin

  6. Enrico Fiore scrive:

    Caro Alessandro,
    mi sembra che i teatri napoletani più adatti ad ospitare il suo spettacolo siano il Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, diretto da Roberto Andò, e il Teatro Bellini, diretto dai fratelli Daniele e Gabriele Russo.
    Cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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