Metti una sera a cena Allah, Jahweh, Gesù Cristo e Krishna

Una foto generica di Fabrizio Bentivoglio protagonista al Bellini de «L'ora di ricevimento» di Massini

Una foto generica di Fabrizio Bentivoglio
protagonista al Bellini
de «L’ora di ricevimento» di Massini

NAPOLI – «Raffreddore», «Invisibile», «Primobanco», «Fuggipresto», «Panorama», «Boss», «Bodyguard», «Falsario», «Campione», «Rassegnato», «Missionario», «Cartoon» e «Adulto».
Sono i soprannomi che uno per ciascuno assegna ai suoi tredici alunni il professor Philippe Ardeche, 62 anni e da 32 insegnante di francese nella sesta classe della sezione C di una scuola situata nella difficilissima banlieue di Les Izards. Il professor Ardeche è il personaggio protagonista de «L’ora di ricevimento», il testo di Stefano Massini in scena al Bellini, per la regia di Michele Placido, nell’allestimento prodotto dallo Stabile dell’Umbria. E stante il fatto che, mentre di anno in anno cambiano gli alunni, i soprannomi a loro attribuiti restano sempre gli stessi, risulta subito evidente che Ardeche, di null’altro preoccupato che d’incasellare quegli alunni in schemi precostituiti, rappresenta il prototipo dei tanti docenti disillusi, e perciò cinici, che affollano e avviliscono la scuola di oggi.
Ma non a caso Stefano Massini è uno dei migliori drammaturghi italiani in attività. I suoi testi possiedono, sempre, un impianto che accoppia una scrittura capace di svolgere il tema di volta in volta prescelto con precisione addirittura chirurgica e un sottotesto acutamente tramato di metafore e allusioni d’ordine generale. E così i soprannomi di cui sopra non si limitano a veicolare una sia pur sottile ironia, ma incarnano – nel quadro della complessa realtà multietnica di Les Izards – ben più pregnanti (e talora drammatici) nodi esistenziali, paradigmi psicologici e spaccati sociali.
Farid Hatab, il «Raffreddore» di turno, «ha freddo fuori e dentro. Soprattutto dentro»; Patrice Tellier ha le caratteristiche spiccate di tutti gli «Invisibili», che «spesso svaniscono, perfino a se stessi, si dimenticano di esistere»; Nicholas Rabier, un classico «Adulto», «se ne sta in classe come potrebbe starci un cinquantenne: già bruciato dalla vita, in tutti i sensi»; e, per proporre ancora un esempio, Nagìb Derwish, il «Primobanco», colui che «si è fatto fregare da tutti gli altri, tanto che gli tocca il posto più terribile, sotto gli occhi del guardiano», a undici anni già si chiede: «Perché la società fa vittime e per giunta la vittima sono io?».

Stefano Massini (foto di Attilio Marasco)

Stefano Massini
(foto di Attilio Marasco)

Massini (ed ecco un esempio dell’allusività alla quale accennavo) commenta: «Per cui in prospettiva chi siede al Primobanco diventerà un cantautore. O un terrorista». E l’ironia intrigante del testo tocca poi l’acme quando, per l’appunto in una delle ore di ricevimento, si discute della cena da offrire agli alunni che partecipano alla gita alla Duna di Pilat.
Qui Ardeche – che già aveva dichiarato: «Io tratto i musulmani come fossero ebrei, gli ebrei come fossero musulmani ed entrambi come fossero cattolici» e aveva spiegato: «È solo una questione di punti di vista. Io lo scoprii il giorno in cui sentii – da dietro un vetro – una donna col velo che diceva: “Egli vomiterà dalla sua bocca tutti voi che siete troppo tiepidi”. Pensai a una mujahidin che istruiva i kamikaze. Poi entrai nella stanza. E mi trovai davanti a una suora che leggeva l’Apocalisse di San Giovanni a dei bambini» – lui, Ardeche, traduce, nell’accavallarsi di tutti i veti relativi ai cibi messi sul tappeto della discussione dalle varie fedi in campo, la non comune competenza di Massini (penso a un testo quale «Processo a Dio») in fatto di culture religiose. Fino all’impagabile battuta: «Come faccio io a far cenare assieme: Allah, Jahvè, Gesù Cristo e Krishna?».
Peccato per il finale, piuttosto prevedibile e scontato, che si divide fra l’incubo dell’ex allievo che viene ad accusare Ardeche e il «mea culpa» che quest’ultimo recita nell’ultima battuta. Ma ciò che maggiormente penalizza «L’ora di ricevimento» è la regia di Placido, il quale, in pratica, si accontenta di stare a guardare, salvo, nelle rare occasioni in cui interviene, pigiare a fondo sul pedale della facile comicità. Come, tanto per fare solo un esempio, accade quando riduce a una semplice ed esasperata macchietta quel professor Michel Saint-Pierre che, invece, Massini tratteggia nei termini amari di un’avvilita sconfitta in partenza nei confronti della vita: la vita, sempre uguale e sempre diversa, simboleggiata dall’albero da frutto maestoso (con le foglie o spoglio a seconda delle stagioni) che campeggia nel cortile al di là della vetrata della stanza di ricevimento e che qui lo scenografo Marco Rossi riduce a confuse e indistinguibili macchie sul fondale.
Restano solo l’Ardeche di Fabrizio Bentivoglio, l’unico che interpreti al meglio le intenzioni dell’autore, e la prova volonterosa della Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

P.S. Come forse qualcuno avrà notato, non ho illustrato quest’articolo con le foto di scena dello spettacolo, ma solo con una foto generica di Fabrizio Bentivoglio. E il motivo è il seguente: le foto di scena che mi ha mandato lo Stabile dell’Umbria tramite l’ufficio stampa del Bellini non corrispondono, per ciò che riguarda certi particolari dei costumi, a quanto effettivamente si vede sul palcoscenico. E passi, visto che comincia a far freddo, il pullover indossato da Bentivoglio sulla camicia. Ma come la mettiamo con la shashìa indossata ora dall’attore che interpreta il personaggio dell’integralista islamico Rashid Djebar e che nelle fotografie non compariva?
La shashìa è il copricapo maschile tradizionale di molte popolazioni islamiche. Ed è compatibile con la djellaba o il caffettano, non con lo «spezzato» blu e grigio, la camicia e la cravatta esibiti adesso nello spettacolo.
Chi ha avuto l’idea di tirarla in ballo? Questa è la domanda. E non è affatto peregrina: perché quella shashìa piazzata sullo «spezzato» blu e grigio, sulla camicia e sulla cravatta arriva, in tutta evidenza, a sottolineare ulteriormente (e davvero ce lo potevano risparmiare) le connotazioni macchiettistiche di cui ho detto.

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