Quel «doppio» perfetto giocato dalla coppia Mozart-Strehler

Un momento de «Il ratto dal serraglio» in scena al San Carlo (le foto dello spettacolo sono di Luciano Romano)

Un momento de «Il ratto dal serraglio» in scena al San Carlo (le foto dello spettacolo sono di Luciano Romano)

NAPOLI – «È un dovere per il mondo della cultura ricordare i grandi maestri attraverso la rappresentazione dei loro straordinari allestimenti come questo del “Ratto dal serraglio”, e lo è a maggior ragione per una grande istituzione teatrale come il San Carlo: ciò significa non soltanto ricordare, ma tramandare alle nuove generazioni una lezione di arte assieme a una testimonianza delle qualità umane, dell’impegno politico e dell’attivismo sociale e culturale di grandi maestri di vita come Strehler».
Queste le parole adoperate da Rosanna Purchia, sovrintendente del Teatro di San Carlo, per commentare il ritorno nel nostro Massimo de «Il ratto dal serraglio» di Mozart con la regia di Giorgio Strehler e le scene e i costumi di Luciano Damiani. Ma non si tratta delle solite parole di circostanza. Sono parole dettate dagli oltre trent’anni spesi da Rosanna Purchia accanto a Strehler e nel Piccolo di Milano: perché, naturalmente, non invano si lavora per oltre trent’anni al fianco di uno come Strehler e in un organismo teatrale come il Piccolo di Milano.
Ricordo ancora, con piacere e commozione insieme, il viaggio da Napoli a Milano che lei, Rosanna Purchia, organizzò nel marzo del ’98, meno di tre mesi dopo la morte di Strehler, per portare un gruppo di addetti ai lavori, studenti dell’Accademia di Belle Arti e semplici appassionati a vedere, nel nuovo Piccolo a Strehler intitolato, «Così fan tutte», l’ultimo spettacolo firmato dal Maestro. Adesso, però, metto da parte i sentimenti e mi affretto ad entrare nel merito dell’«oggetto» in questione, appunto «Il ratto dal serraglio».
Parliamo dell’allestimento che il Teatro alla Scala ha realizzato nello scorso giugno per celebrare il ventennale della scomparsa di Strehler e il decennale di quella di Damiani. Lo spettacolo diretto da Strehler debuttò al Festival di Salisburgo nel 1965. E nel 1982 il grande regista lò affidò a Mattia Testi, in occasione di una replica a Venezia. Nello stesso anno lo spettacolo venne portato anche al San Carlo. Ed è da allora che Testi ne cura le riprese.
Ciò detto, aggiungo subito che, se Mozart non avrebbe potuto trovare regista più adatto di Strehler a mettere in scena «Il ratto dal serraglio», Strehler non avrebbe potuto trovare materia più adatta dell’opera di Mozart ad esprimere la propria idea di teatro. Il risultato, per fare un paragone con il tennis, è la larghissima vittoria nel «doppio» di una coppia eccezionale, paragonabile a quella ipotetica formata da Björn Borg e da John McEnroe: ovvero dalla tecnica e dal calcolo da una parte e dalla fantasia e dalla spettacolarità dall’altra. E cerco di spiegarmi muovendo, ovviamente, dalla struttura e dalle forme che connotano «Die Entführung aus dem Serail», giusto «Il ratto dal serraglio» secondo il titolo tedesco del libretto scritto dal mercante di Lipsia Christoph Friedrich Bretzner e rielaborato dall’ispettore teatrale di Vienna Johann Gottlieb Stephanie junior.

Maria Grazia Schiavo nei panni di Konstanze

Maria Grazia Schiavo
nei panni di Konstanze

Quando debuttò al Burgtheater di Vienna, nel 1782, «Il ratto dal serraglio» costituì il proverbiale sasso gettato nello stagno: e per stagno intendo, si capisce, la dimensione avulsa da patemi, tranquilla e accomodante, a cui il Singspiel affidava il proprio mélange di canto e recitazione. Vedi, in proposito, le andanti piacevolezze dispensate da un compositore come Dittersdorf. A fronte delle quali Mozart non solo fece irrompere in quello «stagno» la vivacità dell’opera comica italiana, ma, per di più, rapportò costantemente le fioriture vocali, gli abbellimenti e gli spunti contrappuntistici della sua partitura alle precise sequenze sceniche che la trama via via proponeva.
Inoltre, c’è da notare che siamo di fronte a un esempio forse insuperato di come un artista possa, insieme, manifestare la commozione dettata dal proprio intimo e non lasciarsene condizionare in sede di espressione tecnica.
In breve, risulta evidente il parallelismo stabilito da Mozart fra le tribolazioni di Konstanze e Belmonte e quelle che doveva patire lui, nella realtà, per condurre in porto il matrimonio con Konstanze Weber, avvenuto, non a caso, proprio nel 1782. E dunque, appare del tutto esplicita la tenerezza profusa dal genio di Salisburgo nel tratteggiare, appunto, il personaggio di Konstanze: una tenerezza che dimostrano, specialmente, la prima aria della stessa Konstanze e il duetto in cui lei oppone al disperato atteggiamento di Belmonte la sua felicità di morire insieme con l’amato. Ma il miracolo è che «Il ratto dal serraglio» costituisce una risposta più che eloquente all’avvertimento di Busoni: l’artista, «se deve commuovere, non dev’essere commosso egli stesso, per non correre il rischio di perdere al momento culminante la padronanza dei suoi mezzi».
Insomma, Mozart, pur turbato dai contatti fra la propria creazione artistica e il proprio personale vissuto (davvero non appare casuale, al riguardo, l’alone di malinconia da cui risulta circonfusa la figura di Konstanze), non smarrisce mai, neanche per un momento, l’alta caratura, squisitamente tecnica, della musica resa in forma drammatica. E ciò perché «Il ratto dal serraglio» rappresenta la coscienza che deriva al compositore dal fatto che quell’opera è il compimento di un percorso.
In proposito indico solo tre precedenti: un’anticipazione del duetto di Bacco è ravvisabile nell’opera buffa «La finta semplice» del 1768; Belmonte è preannunciato dal Belfiore de «La finta giardiniera» (1774); e infine, un altro preannuncio de «Il ratto dal serraglio» è il rondò «alla turca» contenuto nella Sonata in la maggiore K 331 (1778).

Una delle scene in controluce, il duetto di Bacco fra Pedrillo e Osmin

Una delle scene in controluce, il duetto di Bacco fra Pedrillo e Osmin

Ne deriva che i personaggi de «Il ratto dal serraglio» non sono più caratterizzati in maniera genericamente tradizionale, ma tenendo presenti le perturbazioni psicologiche che, per l’appunto, innescano e influenzano l’azione drammatica. Sicché nella partitura, davvero nuova e intrigante, non accade soltanto che gli echi orientali si mescolino con quelli italiani, ovviamente, e poi francesi e tedeschi; così come non accade soltanto che sia la «musica turca» (grancassa, piatti, triangolo e ottavino) a connotare il colorito orchestrale, in occasione, poniamo, del coro dei giannizzeri. Nell’ouverture, ancora non a caso ammirata da Wagner, Mozart sostituisce lo sviluppo della forma sonatistica tripartita con la nostalgica aria di Belmonte. E qui vengo, finalmente, alla regia di Strehler.
Strehler, sempre non a caso, riprodurrà il contrappunto psicologico determinato ne «Il ratto dal serraglio» fra le coppie Konstanze-Belmonte e Pedrillo-Blonde (la prima connotata dalla riservatezza e la seconda dalla spontaneità popolaresca) nel suo allestimento (1994) de «L’isola degli schiavi» di Marivaux, un testo che, per l’appunto, ripesca dalla commedia italiana le coppie parallele di padroni e servi. E quindi suona perfettamente logico che, nei suoi appunti, il grande regista triestino ricordi che Mozart, quando compose «Il ratto dal serraglio» su invito del Burgtheater, aveva in mente l’«Arlecchino servitore di due padroni» di Goldoni: proprio la commedia di cui Strehler fece, con il suo allestimento, l’autentica bandiera del Piccolo.
Ma ecco il punto. Nell’«Arlecchino servitore di due padroni» di Strehler c’era una scena decisiva e indimenticabile, la cui atmosfera verrà poi ripresa, in qualche modo, nell’allestimento di «Così fan tutte»: la scena di Pantalone che rievoca le cene di una volta in quella certa locanda in faccia alle Fabbriche di Rialto. Qui il calore che sempre attraversava gli spettacoli di Strehler si faceva più segreto, e cambiava tinta: restava solo la fiamma tremula delle candele, i proiettori spandevano un’azzurrina luce lunare, si sentivano impalpabili arpeggi di chitarra; e Pantalone parlava sommesso, era il rimpianto della giovinezza, della corte degli amici smarriti, di tutta una stagione perduta. Ma ripeto, ecco il punto: era solo il rimpianto di Pantalone o anche quello di Strehler per il teatro che fu e la vita che passa?

Bjarni Thor Kristinsson nel ruolo comico di Osmin

Bjarni Thor Kristinsson
nel ruolo comico di Osmin

Su questa strada, lo sappiamo, Strehler arrivò nel 1985 a sovrapporsi a Jouvet in «Elvira o la passione teatrale» e addirittura – nel 1991, in «Faust» – a mostrarsi nudo, rannicchiato in posizione fetale. E nell’entrare e uscire dal teatro sta anche la chiave della strepitosa regia da lui concepita per l’allestimento de «Il ratto dal serraglio» ora in scena al San Carlo.
L’azione consiste, sostanzialmente, in un movimento verticale, dall’al di là all’al di qua (e viceversa) di una linea orizzontale immaginaria: al di qua c’è il controluce, al di là la luce piena. E s’intende che, grosso modo, l’al di qua costituisce il regno del privato e l’al di là quello della rappresentazione o del puro divertissement. Per esempio, il tormento di Konstanze («Come la rosa avvizzita, / come l’erba nel muschio d’inverno, / inaridisce la mia vita triste») spasima nell’al di qua del controluce. Mentre, sempre per fare un esempio, l’accumulo di gag nella scena di Osmin che non riesce a unire i due capi della catena che impedisce l’accesso al palazzo del pascià Selim si determina nella luce piena dell’al di là. Ed è appena il caso di notare lo straniamento garantito dal fatto che Osmin ci riesce, a unire i due capi della catena, solo quando i macchinisti accostano le quinte a cui quei capi sono attaccati.
Si capisce, quindi, che Selim – quando deve sviscerare il catalogo dei rovelli circa la per lui incomprensibile resistenza di Konstanze alle sue voglie – si colloca esattamente su quella linea immaginaria: né in piena luce né in controluce, e fra i due lembi del sipario semichiuso. Bellissimo, e assolutamente significante.
Non mi resta, infine, che annotare la buona prova complessiva del cast, in cui emergono Maria Grazia Schiavo (Konstanze), Regula Mühlemann (Blonde) e, soprattutto sul versante della recitazione, Bjarni Thor Kristinsson (Osmin). E buone sono anche le prestazioni dell’orchestra diretta con piglio vivace da Hansjörg Albrecht e del coro governato con sagacia da Marco Faelli. Ma, per concludere, mi sembra che, sul piano simbolico, la sintesi perfetta di quest’allestimento de «Il ratto dal serraglio» sia costituita da quanto mi disse per telefono Strehler nell’imminenza dell’arrivo a Napoli del suo «Arlecchino». Chiamava da Portofino, fra le svagate chiacchiere (la piena luce, appunto) dei vacanzieri. E mi disse, spostandosi nel controluce: «Il teatro è lo stare dell’uomo con l’uomo».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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