Massimo Ranieri, i ricordi che diventano vita

Massimo Ranieri in un momento di «Malia», lo spettacolo-concerto in scena al Diana

Massimo Ranieri in un momento di «Malia», lo spettacolo-concerto in scena al Diana

NAPOLI – Come far diventare i ricordi vita e trasformare la nostalgia in qualcosa, l’energia, che somiglia a quella soltanto per via della rima.
Potrebb’essere questo il sottotitolo di «Malia», lo spettacolo-concerto che Massimo Ranieri presenta al Diana. Perché qui si tratta delle canzoni napoletane degli anni Cinquanta e Sessanta, da «Resta cu mme» a «Torero», da «Anema e core» a «Tu vuo’ fa’ l’americano», da «Nun è peccato» a «Doce doce». E parliamo, dunque, di un’epoca d’oro, che chi non l’ha vissuta non sa che cosa s’è perso.
Ripeto qui, per l’occasione, quanto già mi è capitato di scrivere. Parliamo degli anni in cui le notti di Napoli non ebbero niente da invidiare a quelle di Parigi. Parliamo delle notti che conobbero gli straordinari luoghi deputati costituiti dallo Shaker, il night che vide la nascita del trio Carosone-Van Wood-Di Giacomo insieme con l’affermarsi di Peppino Di Capri, e dall’Hotel Miramare, la casa del mitico commendator Angelo Rosolino, proprietario dello Shaker. E in quelle notti s’intrecciarono piccole grandi storie, dolci e smarrite insieme.
Un ponte ideale venne gettato tra Napoli e gli States. E mi ricordo di quando arrivò Chet Baker. Poco prima di suonare s’allontanò con una scusa e tornò senza la tromba. Disse che l’avevano aggredito e gliel’avevano rubata. Ma, naturalmente, capimmo subito che l’aveva data via in cambio di droga. E così un gruppetto di noi dovette andare sui Quartieri per recuperarla pagando.
Poi, su quel ponte gettato fra Napoli e gli States corsero anche sapori di cucina. Nacque un ristorante che, ovviamente, si chiamò California. E fu un’autentica propaggine dell’America: portò da noi il tacchino, gli hamburger e persino Lucky Luciano, che lì installò il suo «ufficio» quando lo espulsero da New York. Ma sempre si confondevano – il tacchino, gli hamburger e persino Lucky Luciano – con i suoni che uscivano dallo Shaker. Mi torna in mente una notte in cui, nel California, cantò per ore lo sconosciuto Gigi Proietti e alle sei di mattina la ragazza Liana Orfei cucinò uno spaghetto aglio e olio.

Con Ranieri, da sinistra, Rita Marcotulli, Riccardo Fioravanti, Stefano Di Battista, Enrico Rava e Stefano Bagnoli

Con Ranieri, da sinistra, Rita Marcotulli, Riccardo Fioravanti, Stefano Di Battista, Enrico Rava e Stefano Bagnoli

Ecco, il primo grande merito di «Malia» è quello di ridestare la memoria e il profumo di quella remota stagione. E, come dicevo, il secondo, e ancora più grande, è quello d’impedire che la memoria e il profumo della stagione remota di cui parliamo diventino un alibi per addormentarsi in uno sterile sentimentalismo.
Massimo Ranieri, certo, ottiene questo risultato circondandosi di jazzisti eccelsi quali Rita Marcotulli al pianoforte, Enrico Rava alla tromba e al flicorno, Stefano Di Battista ai sax, Riccardo Fioravanti al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria; e, quindi, spogliando le canzoni in scaletta da ogni stilema formale datato. Ma il piccolo miracolo compiuto da «Malia» sta, fondamentalmente, nel fatto che un simile «ammodernamento» non cancella l’aura di quei brani: un’aura determinata, per l’appunto, dall’atmosfera che si respirava nel night, enclave di sogni e d’illusioni che potevano pure abbracciarsi, talvolta, nella partita a perdere con la vita.
È in tale ambito che il passato trova riscontro nel presente. E faccio al riguardo un solo esempio. «Dove sta Zazà» viene eseguita da Ranieri su un ritmo rallentato, il che rimanda al modo in cui la eseguiva l’indimenticabile Gabriella Ferri; ma, in più, quel ritmo rallentato risulta ora continuamente spezzato da pause e dissonanze: sicché la storia metaforica della compagna di Isaia scomparsa nella folla durante la festa di San Gennaro diventa un sogno impossibile da sognare, troppi essendo gli agguati perturbanti che oggi ci toccano.
Aggiungo, poi, che l’aura di cui sopra viene ribadita, insieme, sul piano simbolico e su quello degli affetti. «Luna caprese», poniamo, Ranieri la canta in mi, mentre la tonalità originale della canzone è in fa. E il mi viene prima del fa. Così come, verso la fine, il ponte gettato in un tempo lontano fra Napoli e gli States approda a «Vieneme ‘nzuonno», per un omaggio a quell’immenso Sergio Bruni che giusto in America portò con sé il giovanissimo Massimo.
Adesso, per concludere, non spreco parole circa la bravura di Ranieri, basterebbe ad illustrarla l’alta temperatura drammatica che lui conferisce a «Luna rossa». Osservate la ragnatela fittissima di sguardi e gesti in cui vengono incastonate le note: è il paradigma degli slanci e delle cadute che, nello stillicidio dei giorni, toccano inevitabilmente a ciascuno di noi.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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