Martone, il teatro come percorso

Mario Martone

Mario Martone

È possibile riassumere in una sola frase di appena dodici parole un’opera in due volumi di complessive cinquecentoottantatré pagine dedicata a una delle personalità più ricche e articolate del panorama teatrale italiano determinatosi a partire dalla seconda metà degli anni Settanta? Laura Ricciardi – ricercatrice presso «L’Orientale» e autrice di «Mario Martone regista teatrale», uno studio accuratissimo e dettagliatissimo uscito per i tipi dell’Art Studio Paparo – ci riesce perfettamente.
La frase è questa: «Scena, parola e spazio caratterizzano in fasi distinte il percorso di Martone». E infatti, i due volumi di cui parliamo («Dalla scena alla parola, 1977-1992» e «Dalla parola allo spazio, 1993-2012») danno conto con precisione di come Mario Martone sia passato, dalla sperimentazione sugli elementi della scena attuata col gruppo Falso Movimento, prima al recupero del testo verbale perseguito con Teatri Uniti e poi, per l’appunto, all’acquisizione dello spazio sotto specie di elemento centrale della messinscena.
Tale descrizione viene resa ancora più completa e preziosa da un’esaustiva antologia dei bozzetti dei singoli spettacoli e delle fotografie degli stessi scattate da compagni di strada che si chiamano, innanzitutto, Fabio Donato e Cesare Accetta. Ma occorre, specialmente, prestare attenzione alla parola «percorso»: da intendersi non nel senso generico di tragitto, bensì nel senso che lo sport attribuisce all’itinerario con caratteristiche particolari aperto al confronto fra i concorrenti.

Una scena di «Avventure al di là di Tule»

Una scena di «Avventure al di là di Tule»

Facciamo un esempio. Sul primo spettacolo di Martone – «Faust e la quadratura del cerchio», presentato nel marzo del ’77 allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello – gravavano, e lo scrissi, troppo evidenti ricalchi di «Presagi del vampiro» del Carrozzone. E Martone, pur essendo un ragazzo, immediatamente cambiò rotta: diede al proprio gruppo, che aveva chiamato «Il Battello Ebbro», il nuovo nome «Nobili di Rosa», lo stesso di un’antica moneta alchemica, e pochi mesi dopo presentò, sempre allo Spazio Libero, l’installazione «Avventure al di là di Tule», in cui sostituiva alla mera misurazione degli elementi costitutivi minimi del teatro (giusto lo spazio, il tempo e la luce) praticata nello spettacolo precedente la rifusione, in rapporto alle arti visive, di quanto la consunta ed esausta cultura massificata ci trasmetteva.
Si trattava, certo, del passaggio a quello che venne chiamato «Teatro Analitico-Esistenziale». Ma si trattava anche, e soprattutto, del primo manifestarsi della dote che ha reso Mario Martone un personaggio significativo e importante al di là dei suoi meriti strettamente registici: quella che si traduce nella coscienza della storia e della società, quella, in altri termini, che implica proprio la capacità del confrontarsi. E dunque, tra le righe dell’opera di Laura Ricciardi traspare anche l’accenno all’epoca felice (e assai probabilmente irripetibile) in cui a Napoli vigeva un interscambio fecondo fra i teatranti e i critici: una volta Martone concepì un’azione teatrale fatta esclusivamente di un messaggio affidato a un giornale (un’azione situazionista o, come si diceva allora, comportamentale), cercò la mia complicità e, avutala, ottenne che le colonne di «Paese Sera» diventassero il palcoscenico su cui costruimmo insieme la nostra «performance».

Carlo Cecchi ne «La serata a Colono»

Carlo Cecchi ne «La serata a Colono»

Ma ben più decisiva, nell’ambito del «percorso» di cui diciamo, è «La serata a Colono» di Elsa Morante messa in scena da Martone l’anno scorso. Lo spettacolo fu il punto di approdo di un percorso registico improntato a una coerenza esemplare: Martone, che nel 2004 aveva allestito l’«Edipo a Colono», adesso allestiva quella che della tragedia di Sofocle è una riscrittura («parodia» la definisce non a caso l’autrice) radicalmente confitta nella contemporanea impossibilità del tragico; e se, alle prese con la tragedia di Sofocle, costringeva gli spettatori a seguire, spostandosi, appunto il percorso di Edipo dal principio alla fine, ora, alle prese con «La serata a Colono», costringeva il coro, che la Morante nasconde dietro un muro, a sciamare in platea intorno agli spettatori immobili.
Insomma, la splendida sostanza dell’allestimento veniva a risiedere in una lancinante storicizzazione: quell’Edipo era lo specchio di tutti noi, smarriti e orfani delle domande.

Andrea Renzi nel ruolo di Neottolemo ne «La seconda generazione»

Andrea Renzi nel ruolo di Neottolemo ne «La seconda generazione»

Ma un’altra frase di Laura Ricciardi mi ha colpito: «I viaggi, come si sa, ti riportano a casa». Ci fu una notte del ’72, sperduta e tuttavia impavida nella notte interminabile dei colonnelli, in cui in una casa di fronte al Partenone, una casa bianca tappezzata di libri, si riunirono i principali rappresentanti del fronte dell’opposizione. C’era fra loro Yannis Ritsos, appena uscito dal campo di concentramento. E cantai per lui, con una chitarra mezzo sfondata, «La ballata del Pinelli».
Poi il quartiere fu sventrato, per far posto ai soliti casermoni anonimi; e sparì pure quella casa bianca tappezzata di libri. Io ad Atene non sono tornato più. Ma quando, nel 1988, assistetti nel freddo del Teatro dell’Arte di Milano a «La seconda generazione», lo spettacolo in cui Martone metteva proprio Ritsos accanto a Sofocle, Euripide, Virgilio e Seneca, mi vennero intorno fantasmi amorevoli. E anch’io, per un momento, fui riportato a casa.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 29 novembre 2o14)

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