Era ora, anche «Le serve» hanno scoperto la lotta di classe

Da sinistra, Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia e Vanessa Gravina in un momento de «Le serve», in scena al Nuovo (le foto dello spettacolo sono di Tommaso Le Pera)

Da sinistra, Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia e Vanessa Gravina ne «Le serve», in scena al Nuovo
(le foto dello spettacolo sono di Tommaso Le Pera)

NAPOLI – L’avevo appena scritto, che la stagione teatrale napoletana 2017-’18 è abbondantemente connotata dal vecchio, sia per quanto riguarda gli spettacoli proposti sia per ciò che attiene alla concezione del teatro a cui s’ispira. Ed ecco che la settimana in corso ne offre una dimostrazione addirittura eclatante: il Bellini ripresenta le opinabili riscritture di Shakespeare già presentate nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, il Mercadante rispolvera i venerandi «Sei personaggi in cerca d’autore» di Pirandello e il Nuovo, bellamente dimenticandosi del suo nome, ammannisce «Le serve» di Genet, un testo già offerto in marzo al Nuovo Teatro Sanità con la regia di Gerardo D’Andrea e a luglio, sempre nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, con la cervellotica regia di Antonio Capuano.
Lo stesso testo proposto tre volte, nell’arco di soli otto mesi, nella stessa città. Forse è un record mondiale. E comunque, dei tanti allestimenti de «Le serve» che mi è capitato di vedere, questo di scena al Nuovo ancora oggi e domani mi sembra tra i più superficiali e banali, ad onta che a produrlo ci si siano messi in tre: Teatro e Società, Teatro Biondo di Palermo e Teatro Stabile di Catania. Del resto, la superficialità e la banalità erano già dispensate a piene mani nelle note di regia di Giovanni Anfuso, peraltro, guarda un po’, direttore dello Stabile di Catania medesimo.

Anna Bonaiuto è Solange

Anna Bonaiuto è Solange

Ebbene, in quelle note si legge, per riassumere, che «Le serve» è «una favola dall’andamento onirico e visionario, fondata su due creature tormentate come lingue di fuoco e che mette in scena l’eterna dialettica del padrone e dello schiavo», poiché «le classi inferiori sognano sempre di essere le superiori, amano chi le governa nel momento stesso in cui meditano di ucciderlo». Sulla lotta di classe, per giunta, hanno insistito pure le dichiarazioni rese ai giornali dalle attrici in campo. E giuro che, nei cinquant’anni e passa che ho speso ad occuparmi di teatro, quella de «Le serve» apparentate a suffragette del comunismo non l’avevo mai sentita. C’è sempre da imparare, come si vede.
Ma, scherzi a parte, per dimostrare la superficialità e la banalità di cui dico mi basterebbe un semplice dato di fatto. Qui, in sede di presentazione dello spettacolo, si cita Jean-Paul Sartre. Ed è una citazione ovvia, giacché Sartre, come sappiamo, in un’appendice del suo noto volume «Santo Genet, commediante e martire» si soffermò proprio su quella, giusto «Le serve», che è la prima opera teatrale rappresentata (vide la luce nel ’47) dell’ex carcerato divenuto scrittore. Però, ecco il punto, di Sartre ci si limita a citare l’osservazione, la più trascurabile, riguardante – scrive sempre Anfuso nelle sue note – la compresenza, nel testo in questione, «di essenza e di apparenza, di reale e di immaginario».

Manuela Mandracchia e Claire

Manuela Mandracchia è Claire

Ben altro, invece, si legge nell’appendice a «Santo Genet, commediante e martire». Sartre osserva soprattutto: «[…] ognuna delle due cameriere non ha altra funzione che di essere l’altra, di essere, per l’altra, se stessa come altra: invece che l’unità della coscienza sia perpetuamente ossessionata da una dualità fantasma, è al contrario la diade delle cameriere che è ossessionata da un fantasma di unità: ciascuna di esse non vede nell’altra che se stessa distante da sé».
È questa l’osservazione determinante di Sartre a proposito de «Le serve». E spiego perché, ripetendo qui di seguito (visto che ci fanno vedere sempre gli stessi spettacoli, io sono costretto a scrivere sempre le stesse cose) quanto più volte ho avuto modo di rilevare al riguardo. A cominciare da un breve accenno alla trama, che, ispirata da un episodio di cronaca nera autentico, spinge alla ribalta per l’appunto due cameriere, le sorelle Claire e Solange, prigioniere di un rapporto di odio-amore con la loro padrona, la Signora, e delle quali la prima giungerà – invece che ad uccidere la padrona stessa – soltanto a suicidarsi.
Risulta fin troppo evidente, dunque, che il tema centrale dell’atto unico in questione è l’omosessualità: e si tratta – come sempre in Genet – di un’omosessualità che nasce e si consuma all’interno di una solitudine ontologica e che, perciò, si traduce unicamente e perennemente in un desiderio di sé. Di conseguenza, sul palcoscenico, le parole di Claire dovrebbero arrivare a Solange, e viceversa quelle di Solange a Claire, appena come un’eco debole e indistinta delle proprie, quasi l’immagine un po’ appannata che inevitabilmente rinvia uno specchio.

Vanessa Gravina è la Signora

Vanessa Gravina è la Signora

In altri termini, dovrebbero essere pronunciate nello stesso modo in cui Jeanne Moreau canta nel «Querelle» di Fassbinder la canzone che accoglie i versi della «Ballata del carcere di Reading» di Oscar Wilde: infatti, e davvero non a caso, come quella canzone dice che «ogni uomo uccide ciò che ama», così Claire – accesa solo dal citato desiderio di sé – uccide, e non può non uccidere, la sua medesima ragion d’essere esistenziale.
Del resto, ancora non a caso lo stesso Genet, nella nota premessa al testo («Come recitare “Le Serve”»), dice subito che «Il modo di recitare delle due attrici impersonanti le due serve dev’esser furtivo». E aggiunge prima che «Le attrici tratterranno perciò i gesti lasciandoli come in sospeso, o affraliti» e poi che, parallelamente, «Ogni gesto manterrà in sospeso le attrici». Per concludere che «Talora, anche le voci saranno lasciate come in sospeso, e affralite».
D’altronde, aggiungo a mia volta, molto probabilmente la stessa Signora non è che una proiezione di Claire e Solange. Almeno sta lì a suggerirlo il gioco morboso di Claire che, in sua assenza, ricopre il ruolo della padrona e si rivolge a Solange chiamandola Claire. Quel gioco, infatti, si spingerà fino al punto che Claire, coricata sul letto della Signora, berrà al suo posto la tisana di tiglio avvelenata col gardenal destinata, giusto, alla padrona. E, soprattutto, testimonia a favore dell’ipotesi che la Signora non sia che una proiezione di Claire e Solange lo scambio reiterato fra i due significati che in francese ha la parola «bonne»: significa «buona» in quanto riferita alla Signora e in pari tempo «serva» perché, appunto, a riferirla alla Signora sono le due serve. È da spiegare così la battuta concitata che Chiara rivolge a Solange: «Parle… parle de la bonté de Madame (Parla… parla della bontà della Signora)».
Ora, venendo allo spettacolo proposto al Nuovo, non c’è da fare altro che annotare qualche particolare della scena di Alessandro Chiti (una prevedibile specchiera come fondale e le gigantografie di donne nude o seminude che campeggiano, forse per alludere al lesbismo, sulle due pareti) e constatare che Anna Bonaiuto (Solange) e Manuela Mandracchia (Claire) adottano toni oscillanti fra il rissoso e il lugubre, mentre Vanessa Gravina (la Signora) sembra un’indossatrice in passerella. Il tutto alla faccia del «grande rituale barocco» di cui discetta l’Anfuso confuso nel fumoso contesto delle sue note.
Ah, dimenticavo. L’attacco dello spettacolo è in francese. Ed è sicuramente un’invenzione utile. Magari, con i tempi che corrono, ci può essere qualche spettatore convinto che «Le serve» sia scritto in sanscrito.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Era ora, anche «Le serve» hanno scoperto la lotta di classe

  1. Rosa Startari scrive:

    Più che d’accordo con lei. Ho assistito a “Le serve” al Piccolo, e quell’allestimento lo aspettavo con ansia, sia per il testo sia per Anna Bonaiuto, che apprezzo molto. Ma mi è toccato vedere uno spettacolo senza significato, che non ha trasmesso nulla. E secondo me, tutta la platea l’ha pensata allo stesso modo. Se vedo io, da semplice spettatrice, che lo spettacolo è mediocre, perché non lo scrivono i critici sui giornali e perché il Piccolo lo ospita?
    Cari saluti.
    Rosa Startari

  2. Enrico Fiore scrive:

    Cara Rosa,
    rispondo brevissimamente alle Sue domande: se (forse) al Piccolo va concessa l’attenuante dell’ipotesi che non conoscesse in anticipo il livello dell’allestimento in questione, di nessuna attenuante possono giovarsi i critici. E del resto, che abbiano perso gran parte del loro peso e della loro credibilità è dimostrato anche dal fatto che, nei giornali, la critica teatrale risulta ormai confinata in spazi sempre più ristretti e marginali. In pratica, s’è ridotta a un semplice “optional”, considerato dai direttori di quei giornali con sufficienza e, in genere, con malcelato fastidio.
    Le ricambio cordialmente i saluti.
    Enrico Fiore

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