«Sei personaggi» sul confine tra l’immagine e il corpo

Il momento iniziale dell'allestimento di «Sei personaggi in cerca d'autore» che ha aperto la stagione del Mercadante (le foto dello spettacolo sono di Fabio Donato)

Il momento iniziale dell’allestimento di «Sei personaggi in cerca d’autore» che ha aperto la stagione del Mercadante
(le foto dello spettacolo sono di Fabio Donato)

NAPOLI – «Contro il postulato fondamentale della forma drammatica, che considera il dialogo e l’azione, proprio nella loro definitività, come espressioni adeguate dell’essere umano, Pirandello vi scorge una limitazione indebita e nociva della vita interiore, infinitamente varia e molteplice».
Ancora una volta – per inquadrare l’allestimento di «Sei personaggi in cerca d’autore» che, diretto da Luca De Fusco e prodotto dagli Stabili di Napoli e di Genova, ha aperto la stagione del Mercadante – parto dall’acutissima e ancora insuperata osservazione di Szondi riferita a Pirandello in generale. Poiché, per l’appunto, niente potrebbe inverarla meglio di «Sei personaggi in cerca d’autore».
Infatti, qui siamo di fronte a un’evidente e dichiarata impossibilità del dramma: in quanto si oscilla fra la presenza immanente del tirannico e onnivoro «io» strindberghiano (che costituisce la negazione aprioristica di qualsiasi rapporto tra i personaggi e giusto, perciò, di qualsiasi dialogo) e il continuo ricorso al procedimento analitico tipico di Ibsen (che, privilegiando il passato, determina a sua volta una non meno aprioristica sconfitta dell’azione). E basta, al riguardo, considerare la vera e propria battuta tematica che pronuncia il Figlio: «Signore, quello che io provo, quello che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a nessuna azione da parte mia».
Del resto, è sin troppo palese la vicinanza del Padre al personaggio protagonista dell’«Enrico IV»: un testo che, scritto non a caso nello stesso anno in cui vide la luce «Sei personaggi in cerca d’autore», il 1921, si fonda – come spesso m’è capitato di rilevare – proprio sul disperato e fallimentare tentativo d’imprigionare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, in una forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile e immodificabile.
Non a caso, del resto, Fergusson poté definire il capolavoro in questione «un melodramma al confine con la psicopatologia». Il melodramma, non dimentichiamolo, nacque proprio dall’esigenza di rendere la musica in forma drammatica. E in questo, allora, consisté l’autentica rivoluzione determinata da «Sei personaggi in cerca d’autore»: in un colpo solo mise in scena la crisi della società borghese, la crisi del teatro di rappresentazione che di quella società era un’espressione diretta e inequivocabile e, infine, la crisi degli stessi che professionalmente il teatro lo fanno, a partire, ovviamente, da quel Direttore-Capocomico, tanto supponente quanto nevrotico e inconcludente, e da quegli attori, che incarnano il paradigma, insieme divertente e impietoso, di uno sclerotico ambiente teatrale sospeso fra presunzione, retorica e analfabetismo culturale. Il tutto alla luce dell’urgere implacabile di ciò che possiamo sinteticamente definire la libertà morale e intellettuale dell’individuo.
Una sintesi perfetta di quest’insieme ce la offre la battuta, che non mi stancherò mai di citare, rivolta per l’appunto da Enrico IV al presunto Vescovo Ugo di Cluny: «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti, così sfuggita da voi».

Da sinistra, Eros Pagni, Gianluca Musiu, Angela Pagano e Gaia Aprea in un'altra scena dello spettacolo

Da sinistra, Eros Pagni, Gianluca Musiu, Angela Pagano e Gaia Aprea in un’altra scena dello spettacolo

Di tanto, d’altronde, fu espressione l’allestimento di «Sei personaggi in cerca d’autore» diretto da Carlo Cecchi e presentato proprio al Mercadante nel 2003. Cecchi, paradossalmente (ma solo fino a un certo punto), mise in scena il fatidico capolavoro pirandelliano non mettendolo in scena. In altri termini, la sua regia fu un’azione di quelle che una volta si sarebbero chiamate situazioniste o comportamentali, giacché consistette, sostanzialmente, nella dichiarazione programmatica: «Vago, ondeggio, oltrepasso il confine e torno indietro».
Era, senza volerlo, il richiamo alla citata, aurea, definizione di Fergusson. Perché questo, in effetti, Cecchi faceva, letteralmente, sul palcoscenico: nei panni del Direttore-Capocomico, caracollava alla propria maniera – in bombetta, il mezzo toscano fra le labbra e il bastone nella destra – sul confine tra la vita e la rappresentazione della vita, un passo al di là e un passo al di qua. Giusto ciò che fece, scrivendo quel testo (e, in genere, tutti i suoi testi), il drammaturgo di Girgenti, perennemente in bilico – per riprendere il titolo del noto saggio di Alonge – fra «realismo e mistificazione».
Dal canto suo, Luca De Fusco afferma nelle note di regia che i «Sei personaggi» pirandelliani gli «sono subito apparsi come gli attori di Woody Allen che escono dallo schermo in “Broadway Danny Rose”, dato che la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza» gli «ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro».
A proposito di personaggi che escono dallo schermo nei film di Allen, si potrebbe pensare, naturalmente, anche a «La rosa purpurea del Cairo». E comunque, detto fatto, De Fusco spinge quelli pirandelliani a venire sul palcoscenico uscendo da un muro di fondo che svolge, per l’appunto, la funzione di schermo cinematografico. Il che costituisce un’idea senz’alcun dubbio fondata, anche se non nuova (ricordo un’edizione di «Sei personaggi in cerca d’autore» prodotta dallo Stabile di Torino nei primi anni Settanta e che, protagonista Tino Buazzelli, il grande Joseph Svoboda ambientava in uno studio televisivo, con i «Sei» che uscivano, giusto, da uno schermo, sia pure quello piccolo per antonomasia). E si tratta di un’idea fondata perché, giusto, il mezzo espressivo del cinema sono le immagini, e queste – le immagini della realtà, non la realtà – prendono dimora stabile nella mente dello scrittore durante la creazione.
Il problema, però, è che, quando le immagini escono dallo schermo e si trasferiscono sul palcoscenico, diventano corpi, i corpi degli attori che debbono materializzarle. E accade, inevitabilmente, che si determini uno scontro fra la storicità, il qui e ora dei corpi degli attori, e l’atemporalità delle immagini, eternamente uguali a se stesse e, perciò, negate al fluire vitale della storia. Bisognerebbe che gli attori fossero corpi che si muovono nella concretezza limitata dei loro presenti via via determinatisi esibendo, nello stesso momento, i segni indelebili di un passato ancestrale, ovvero gli elementi-cardine del proprio Dna ontologico.
Ebbene, Luca De Fusco trova in proposito una soluzione davvero persuasiva. I «sei personaggi» pirandelliani si manifestano, al loro primo apparire, come ombre proiettate sul muro-schermo di cui sopra, proprio, cioè, come le tracce poco identificabili di una lontana vita biologica precedente. In seguito appaiono, sempre proiettati su quel muro-schermo, con le facce e i panni che gli ha dato il drammaturgo nella sua immaginazione. E infine, diventati sul palcoscenico i corpi degli attori che li materializzano, di tanto in tanto si bloccano, come in un soprassalto della coscienza, mentre sul muro-schermo scorre la proiezione delle loro azioni registrate, e assimilate, dunque, a una sorta di reperto archeologico dell’anima.
I dubbi, e proprio in merito a tale (ripeto, persuasiva) invenzione, riguardano il tipo di recitazione adottato dagli attori qui in campo, una recitazione di stampo realistico che, come è facile capire, con quella invenzione non collima. Per esempio, la pur impegnata Gaia Aprea fa, nel ruolo della Figliastra, la prostituta, laddove dovrebbe rappresentare il tormento di una ragazza di buona famiglia costretta a prostituirsi. E lo stesso discorso vale anche per il sempre straordinario (tecnicamente e stilisticamente parlando) Eros Pagni: fa il padre, un padre a tutti gli effetti riconoscibile come tale, laddove dovrebbe rappresentare il Padre con l’iniziale maiuscola, ossia l’idea (o, per l’appunto, l’immagine) del padre medesimo.
Non a caso la migliore risulta essere Angela Pagano nel ruolo di Madama Pace: poiché, giusto, si mantiene, perfino con un pizzico di follia (osservate come guata, appena entra, il Direttore-Capocomico), sul confine tra l’immagine e il corpo. Ma, per concludere, il problema decisivo è costituito per questo spettacolo, che pure è confezionato con cura elegante, dal fatto che «Sei personaggi in cerca d’autore» è vecchio di ben 106 (centosei) anni, a far data dalla novella, «Tragedia d’un personaggio», da cui venne tratta la commedia, pubblicata dal «Corriere della Sera» il 19 ottobre 1911. E nel frattempo troppa acqua è passata sotto i ponti del teatro e, ciò che più conta, sotto quelli del mondo e della società: interi oceani, che hanno esiliato i rovelli filosofici e le questioni teoriche di Pirandello nelle pagine dei manuali specialistici e, quindi, per l’appunto nel limbo della memoria.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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