Ma perché sbeffeggiare «Tito», se si sbeffeggia da solo?

Un momento di «Tito», in scena al Bellini nell'ambito del progetto Glob(e)al Shakespeare

Un momento di «Tito», in scena al Bellini nell’ambito del progetto Glob(e)al Shakespeare

NAPOLI – Eccomi, adesso, al secondo degli spettacoli che ho visto al Bellini nell’ambito del progetto di Gabriele Russo «Glob(e)al Shakespeare»: l’allestimento, per la regia dello stesso Russo, della riscrittura di «Tito Andronico» da parte di Michele Santeramo. E innanzitutto rilevo che i due spettacoli in questione sono accomunati dai fatti seguenti: tanto «Le allegre comari di Windsor» quanto «Tito Andronico» rientrano fra i più scadenti testi del Bardo; e, poi, sia la riscrittura e la regia de «Le allegre comari di Windsor» sia quelle di «Tito Andronico» si limitano a sottolineare ciò che nei testi originali è già più che evidente.

Michele Santeramo

Michele Santeramo

Ma vengo subito all’oggetto specifico di questa recensione. Per dire che cos’è il «Tito Andronico» basta ricorrere alla celebre considerazione che, corrente il 1614, Ben Jonson espresse nella «induction» (ovvero nel prologo) della «Bartholomew Fair»: «Chi è pronto a giurare che “Jeronimo” (ossia “The Spanish Tragedy” del Kyd, n.d.r.) e “Andronicus” sono ancora i migliori drammi che si possono vedere in giro […] dimostra costante attaccamento al proprio giudizio, e, insomma, che le sue facoltà critiche non hanno saputo evolversi in quest’ultimi venticinque o trent’anni. Pur se sia ignoranza, è ignoranza virtuosa (nel senso di forte, tenace, n.d.r.) e grave».
Ebbene, sembra proprio difficile non trovarsi d’accordo con l’autore di «Volpone». Poiché «Tito Andronico» appartiene alla fase sperimentale di Shakespeare, e di quella accoglie tutti i connotati negativi: primo fra i quali l’acconciarsi alle mode e, dunque, ai compromessi con i gusti del pubblico. Siamo, infatti, di fronte a un testo da inscrivere nel genere della tragedia d’orrori di tipo senechiano, che allora mieteva successi straordinari al fianco, per l’appunto, della non meno truculenta «Spanish Tragedy» di Thomas Kyd.
Ma, per dirla tutta, al confronto con il «Tito Andronico» Seneca e Kyd ci fanno la figura di due candidi chierichetti. E, al cospetto di questo Shakespeare, il Grand-Guignol diventa una tenera favoletta. Per convincersene, è sufficiente gettare uno sguardo alla trama. Tamora, la regina dei Goti portata prigioniera a Roma da Tito Andronico, si vendica di lui con l’aiuto dei due figli e del moro Aaron, suo amante: la figlia di Tito, Lavinia, viene violentata e mutilata della lingua e delle mani; e Tito, mutilato a sua volta di una mano, rende la pariglia dando da mangiare a Tamora le teste dei figli ridotte in pasticcio. Con annessa strage conclusiva.

Gabriele Russo

Gabriele Russo

Si capisce, allora, perché vari ed agguerriti filologi – nel tentativo, come dire?, di salvare la reputazione del Bardo – si sian buttati nella disperata impresa di attribuire ad altri almeno una parte del testo. E si capisce pure, di conseguenza, l’abbassamento di tono complessivo messo in atto da Santeramo e da Russo. A partire dal titolo dato alla riscrittura del testo shakespeariano (semplicemente «Tito») e da quella poltrona bergère, impreziosita dalla lavorazione capitonné sullo schienale, in cui sta quasi sempre stravaccato un Andronico presentatosi, del resto, con addosso il cappottone sformato di un reduce qualunque.
Questo Tito vorrebbe solo starsene in pace a leggere un libro e ad ascoltare la musica diffusa da un vecchio grammofono a tromba. Infatti, affinché non ci siano equivoci, dichiara: «Io voglio stare come stanno le persone normali». Ma, poiché lui «normale» non è, deve subire fino in fondo, e farsene per giunta coprotagonista, tutto lo sfracello che ho sopra riassunto. E la regia di Gabriele Russo spinge tale sfracello, con evidente intenzione ironica, verso stilemi e ritmi da «Pulp fiction». Vedi, per fare un solo esempio, quel liquido rosso in funzione di sangue che arriva ad insozzare il centro della scena attraverso tubi collegati a grandi contenitori appesi in alto ai due lati della stessa.
Peraltro, siamo di fronte a un’invenzione che ricalca la trasfusione in scena che ricorreva nello spettacolo di Angélica Liddell «Prima lettera di San Paolo ai Corinzi. Cantata BWV 4, Christ lag in Todesbanden. Oh, Charles!». E il finale, poi, è un insistito e dichiarato sbeffeggiamento. Gli attori che interpretano le vittime dell’ecatombe conclusiva annunciano platealmente la morte del proprio personaggio. Così: «Poi Tamora muore» e giù distesa a terra, «Poi Saturnino muore» e giù con la testa sul petto… Lo fa persino l’attrice che interpreta Lavinia, la quale non potrebbe farlo perché, ricordate?, le hanno tagliato la lingua. Ma, del resto, in precedenza Lavinia s’era esibita in una violenta requisitoria contro il padre, tanto per dar modo a quest’ultimo d’invocare l’intervento di qualcuno fra il pubblico a interrompere quell’incongruenza.

Un altro momento di «Tito», riscrittura del «Tito Andronico»

Un altro momento di «Tito», riscrittura del «Tito Andronico»

Infine, alla malcapitata fanciulla tocca anche un bel cunnilingus, somministratole da uno dei suoi assassini ad onta del sangue che la impiastriccia peggio di una fetta di pane spalmata di nutella. Non resta, insomma, che prendere atto della buona volontà degl’interpreti in campo: Roberto Caccioppoli, Antimo Casertano, Giandomenico Cupaiuolo, Gennaro Di Biase, Piergiuseppe Di Tanno, Maria Laila Fernandez, Fabrizio Ferracane, Daniele Marino, Francesca Piroi (la migliore, nel ruolo di Lavinia), Leonardo Antonio Russo, Filippo Scotti e Isacco Venturini.
Chiudo con qualche osservazione obbligata. Quando si decide di mettere in scena Shakespeare, si ha il dovere di mettere in scena quello che ha scritto Shakespeare: se, naturalmente, si ha la capacità produttiva di allestire uno spettacolo bisognevole di molti attori e quella intellettuale e culturale di mettere in scena una rilettura di Shakespeare con gli occhi del presente, anche apportando ai testi del Bardo le modifiche (ma solo quelle) che servano a chiarire, sottolinare e amplificare quanto il Bardo medesimo intese comunicarci. Altrimenti si metta in scena altro, non l’ha detto il medico che dobbiamo mettere in scena Shakespeare.
Insomma, mi permetto di rivolgere a Michele Santeramo e a Gabriele Russo le stesse due domande che, nell’anno di grazia 2005, rivolsi in occasione del debutto al Mercadante dell’allestimento di «Tito Andronico» presentato dalla compagnia di Mariano Rigillo per la regia di Roberto Guicciardini: perché destare dal sonno un testo del genere, se, dopo averlo destato, è giocoforza irriderne gli eccessi? e perché, poi, da tanti sberleffi il pubblico dovrebb’essere indotto a riflettere sulla violenza e gli orrori di oggi?
Ma d’altra parte, scusate: con tutto il rispetto per i vari Erba, Santeramo, Miró, Ianniello, Miale di Mauro, Sinisi, Dammacco, Valenti e Vastarella, se debbo scegliere fra Shakespeare e i vari Erba, Santeramo, Miró, Ianniello, Miale di Mauro, Sinisi, Dammacco, Valenti e Vastarella che riscrivono Shakespeare, io mi tengo Shakespeare. O no?

                                                                                                                                           Enrico Fiore

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