Riecco Cirillo e Pacebbene. Ma ormai il terremoto c’è stato

Claudio Di Palma e Mariano Rigillo in una scena dell'allestimento di «Uscita di emergenza» di Manlio Santanelli che ha aperto al San Ferdinando la stagione dello Stabile di Napoli (le foto dello spettacolo sono di Marco Ghidelli)

Claudio Di Palma e Mariano Rigillo in una scena dell’allestimento di «Uscita di emergenza» di Manlio Santanelli
che ha aperto al San Ferdinando la stagione dello Stabile di Napoli (le foto dello spettacolo sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – A dire della mia stima per Manlio Santanelli credo che basti quanto ho scritto di lui. Ma c’è da chiedersi: era proprio necessario che lo Stabile di Napoli aprisse la sua stagione, al San Ferdinando, con la riproposta di «Uscita di emergenza», una commedia di trentotto anni fa? Non era meglio produrre l’allestimento della nuova e ancora inedita commedia di Santanelli, «La serva del Principe»?
Pongo queste domande in merito alla stagione teatrale complessiva che offre Napoli, connotata quant’altre mai dal vecchio: e uso il termine vecchio non solo a proposito dei cartelloni in sé (spettacoli già visti e talvolta riciclati con un titolo diverso, testi ad un tempo illustri e datatissimi, riscritture più o meno opinabili di «classici», trasposizioni in serie di film popolari, spettacoli che arrivano da noi con almeno un anno di ritardo rispetto ad altre città italiane), ma anche, e soprattutto, in riferimento alla concezione del teatro che quei cartelloni incarnano (paludata, scolastica e, in ogni caso, pertinacemente e assolutamente lontana dai problemi brucianti e dai drammi sanguinosi che torturano oggi la vita del mondo).
Altrove non è così, e chi frequenta questo sito ne ha non poche dimostrazioni. Per fare solo qualche esempio, il Metastasio di Prato ha presentato, come preambolo all’apertura della stagione, «Empire», uno spettacolo dell’alfiere del teatro politico europeo, Milo Rau, centrato sul tema dell’esilio e interpretato da attori a loro volta esuli o rifugiati; lo Stabile di Genova ha aperto la stagione con un nuovo testo di Rafael Spregelburd, «Fine dell’Europa», concernente – sulla base di ben otto atti unici – la crisi morale, economica, sociale, istituzionale, politica e culturale del vecchio continente; e il Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro ha offerto, sempre come preambolo all’apertura della stagione, «Chekhov’s first play», uno spettacolo della compagnia irlandese Dead Centre, autentica rivelazione della scena internazionale, che s’interroga su che cosa possa e debba essere il teatro nell’attuale temperie.

Manlio Santanelli

Manlio Santanelli

Vecchio per vecchio, allora, circa «Uscita di emergenza» sono perfettamente autorizzato a ripetermi. E lo faccio riportando pari pari il passo riguardante quella commedia compreso nel mio saggio «Il rito, l’esilio e la peste», dedicato per l’appunto a Manlio Santanelli oltre che ad Annibale Ruccello e ad Enzo Moscato. Lo si cita un po’ dovunque, del resto; e di tanto in tanto mi capita d’incontrare ragazze e ragazzi (poniamo le ragazze e i ragazzi che parteciparono all’allestimento di «Signurì, signurì…» di Moscato diretto da Carlo Cerciello) i quali mi chiedono dove lo si possa trovare.
Purtroppo non lo si può trovare più. La casa editrice che lo pubblicò, la Ubulibri, è scomparsa insieme con il suo fondatore e direttore, l’indimenticabile Franco Quadri. Fu l’unica casa editrice italiana votata esclusivamente al teatro. E fu anche un esempio, alto e raro, di volontariato culturale. Chi lavorava per la Ubulibri, a qualsiasi titolo, lo faceva totalmente e appassionatamente gratis. E molto amò quel saggio il caro Franco, tanto da ingaggiare con la mia monumentale pigrizia un autentico corpo a corpo insieme affettuoso e implacabile. Me lo fece riscrivere due volte, perché, sosteneva, non ci mettevo tutto ciò che sapevo e che era necessario metterci. Poi, al momento di andare in stampa, mi mandò una lettera per dirmi che gli sembrava «bellissimo». E non meno lo amò Barbara Panzeri, che si occupò della cura redazionale e da Milano mi telefonava anche due volte al giorno per segnalarmi ogni mia, sia pur minima, disattenzione o approssimazione o incertezza.
Storielle. Storielle di tempi assai lontani, di quando esistevano ancora i dinosauri. E comunque, ecco qui di seguito che cosa produsse a proposito di «Uscita di emergenza» la storiella che ho appena rievocato.
Due personaggi – Cirillo, un ex suggeritore teatrale, e Pacebbene, un ex sagrestano – vivono, uniti da un complesso rapporto sadomasochistico, in una stanza che minaccia di crollare da un momento all’altro e, per giunta, al centro di un quartiere colpito dal bradisismo.
Questo, in estrema sintesi, l’impianto di «Uscita di emergenza», il testo che, insignito del Premio Idi nel 1979, l’anno successivo diede la notorietà sul piano nazionale (e, ben presto, internazionale) a Manlio Santanelli: un assistente di studio presso il Centro Rai-Tv di Napoli che – autore, sino ad allora, soprattutto di racconti e sceneggiature radiofoniche – come drammaturgo aveva prodotto appena «Con gli occhi del nuovo giorno», un copione tratto dal «Doppio sogno» di Schnitzler e dato nel ’78 all’Antoniano di Bologna.
Ebbene, nell’impianto in questione c’è già il tema centrale che sarà, poi, dell’intero teatro di Santanelli: quello del rito e della ritualità come mezzo per esorcizzare una realtà insopportabile o ritenuta tale. Basterebbe, in proposito, considerare le professioni (ripeto, il suggeritore e il sagrestano) svolte in precedenza da Cirillo e Pacebbene ed entrambe riferite, manco a dirlo, per l’appunto a un rito, rispettivamente il Teatro e la Messa. E vedi, per di più, la seguente dichiarazione, rilasciata dall’autore alla vigilia della «prima» nazionale della commedia al San Ferdinando di Napoli: «Sono partito dalla tentazione di scrivere per due attori, e quindi di ridurre il testo alla drammaturgia più essenziale, giusto quella di due protagonisti che si confrontano. Che è poi la più antica formula per fare teatro».

Mariano Rigillo è Cirillo

Mariano Rigillo è Cirillo

Dunque, è proprio l’ambito della ritualità (a cominciare da quella, proverbiale, del teatro) che Santanelli dichiara di tener presente in maniera e misura preponderanti. Ma il rito, lo sappiamo, è qualcosa che consta di un dato reale (la cerimonia in sé) e del continuo slittamento di quel dato – attraverso la metafora o, comunque, il simbolo – in una dimensione altra. E ne fanno fede, oltre ogni dubbio, le due battute seguenti, che Pacebbene pronuncia a breve distanza l’una dall’altra: «E po’ da ‘nu mumento a n’ato, punto e da capo!… Comme si ‘mpietto… eh, proprio accussì: comme si ‘mpietto a me ‘nu trave ‘e chiste accummencia a tuculia’!… Se ne vene… e dinto a niente se ne cade tutte cose!…» ; e ancora: «Accummencia primma a cade’ ‘nu trave… po’ ne cade ‘n’ato… po’ ‘n’ato… e accussì ‘a sfravecatura te va dint’a ll’uocchie, e nun te fa’ vede’ cchiù niente!…».
Si tratta, come si vede, di vere e proprie battute-chiave. Perché dimostrano che siamo di fronte a un testo dal carattere dichiaratamente anfibologico, che, cioè, si presta a una doppia interpretazione: la stanza in cui vivono (e si torturano a vicenda e tuttavia in qualche modo si amano) Cirillo e Pacebbene, quella stanza è, insieme, un luogo fisico e un luogo dell’anima, anzi l’anima tout court.
Si capisce, allora, che i personaggi in questione non sono che le due facce di una sola medaglia: rappresentano, insomma, le pulsioni contrastanti, ma inscindibili le une dalle altre, alimentate dalla lacerata condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo (e anche, per giunta, di quella sua specie particolarissima che è l’homo neapolitanus): ragione e fede, dubbio e certezza, smarrimento e protervia. Infatti, nella loro squallida stamberga Cirillo e Pacebbene possono tranquillamente scambiarsi il posto del letto senza che cambi la sostanza opaca della loro singola individualità.
Insomma, qui contano non i ruoli interpretati dai personaggi in campo, ma soltanto la recita a cui quei personaggi danno luogo. E ne consegue, s’intende, che «Uscita di emergenza» è un testo assai complesso e stratificato: giacché – e torniamo, così, al suo carattere anfibologico e alla metafora delle due facce di una sola medaglia – vi coesistono la tradizione della migliore drammaturgia partenopea (ossia l’inconfondibile mélange di comico, grottesco, tragico) e gli umori aspri e pungenti del teatro di respiro europeo che di quella tradizione costituisce l’esatto contrario, il teatro di Pinter innanzitutto.
Dunque, le fessure che serpeggiano nelle pareti della stanza di Cirillo e Pacebbene costituiscono, per l’appunto metaforicamente, gli «occhi» attraverso cui in quella stanza guarda un esterno avvertito sempre come oscuro e minaccioso. E allora, si tratta proprio di una delle inconfondibili stanze-prigione di Pinter. Del resto, quali siano i suoi referenti nell’ambito del teatro europeo Santanelli l’ha dichiarato esplicitamente, e ancora nello scritto pubblicato in occasione del centenario della nascita di Eduardo: quando accenna, giusto, «alla maniacale lettura», da parte sua, di autori «come Ionesco e Mrozeck, Beckett e Pinter».
Di qui l’alternarsi del mito e del sogno da un lato e dell’incubo e della superstizione dall’altro, come forme, è ovvio, di una messinscena che tende, ripeto, a neutralizzare la tortura della quotidianità (vedi, a titolo d’esempio, il racconto dell’improbabile amplesso fra Cirillo e la «grande signora», ovvero l’attrice che lui serviva in qualità di umile suggeritore, e quello della presunta «profanazione» di una bambina, durante il battesimo, da parte di Pacebbene).

Claudio Di Palma è Pacebbene

Claudio Di Palma è Pacebbene

Tanto, dunque, scrissi ne «Il rito, l’esilio e la peste». Per dire che, insomma, «Uscita di emergenza» è una gran bella commedia. E quando vide la luce costituì un lucidissimo e addirittura profetico segnale d’allarme circa la tempesta che stava per abbattersi su Napoli.
Ma poi il bradisismo lasciò il passo al terremoto, che per suo conto venne a rappresentare, sul piano dello sconvolgimento tellurico reale, il riscontro dell’altro terremoto, quello metaforico, che s’era verificato sul piano dell’assetto sociale e dei rapporti interpersonali: una mutazione persino antropologica, effetto del passaggio da una cultura originaria autentica a una cultura massificata di riporto. E non a caso, ricordiamolo, nel 1986 Ruccello sentì il bisogno di riscrivere «Le cinque rose di Jennifer», trasferendo la casa del travestito (un perfetto equivalente della stanza di Cirillo e Pacebbene) dai Quartieri Spagnoli (o, mettiamo, da Soccavo o dal Rione Traiano) in un quartiere residenziale e arredandola – rispetto al tenero kitsch che la connotava prima del terremoto (paravento a fiori, toilette modello diva anni ’50, centrini e ninnoli finto Capodimonte) – con veneziane, lacche nere e uccelli d’oro. Mentre Jennifer, che aveva indossato una vestaglia fatta con le tende di merletto e un abito da sera fatto con la fodera, adesso indossò una vestaglia di raso bianco, un turbante, un abito di lamé e, per andare a battere, il vestito e la parrucca di China Blue, protagonista dell’omonimo film di Ken Russell.
In breve, la stanza di Cirillo e Pacebbene (sia nell’accezione reale sia in quella metaforica) era definitivamente crollata. E oggi gli esorcismi dell’ex suggeritore e dell’ex sagrestano non avrebbero proprio alcuna ragion d’essere.
Ebbene, paradossalmente Claudio Di Palma, regista dell’allestimento di «Uscita di emergenza» proposto al San Ferdinando, mostra d’essere in tutto e per tutto d’accordo con quanto sopra. E tanto a partire dall’impianto scenografico di Luigi Ferrigno: Cirillo e Pacebbene si muovono non in una stanza, ma in uno spazio chiuso sul fondo, al pari di una gabbia, da una rete metallica e al cui centro campeggia – testimonianza, giusto, del terremoto avvenuto – un’enorme lastra di marmo che schiaccia simbolicamente l’altrettanto simbolica statua detta «Corpo di Napoli».
Inoltre, come se non bastasse, Di Palma scrive fra l’altro nelle sue note: «Non c’è più religione, non c’è più teatro, non c’è più città. Tutto è già collassato nel vuoto del sottosuolo. L’abbandono si è già ultimato, le identità già perdute. Il residuo vitalistico che Santanelli alla fine degli anni Settanta ancora ipotizzava è diventato un riverbero inerziale. L’alluvione di parole che sommerge le coscienze di Cirillo e Pacebbene, le loro strumentali vaniloquenze erano all’epoca spie di un’erosione dell’autenticità dei rapporti umani, ma anche rigurgito affannato per una vita ancora possibile (un’uscita dall’emergenza, appunto). Oggi, invece, restano probabilmente solo come segni di un’emergenza passata e di un’uscita fallita, un rimuginio di cui resta sospesa solo l’eco».
Appunto, è proprio quello che ho detto io. Anzi, Di Palma lo dice persino con più chiarezza di me. Ma l’eco non è presenza, è solo parvenza: sicché lo spettacolo di cui parliamo si riduce (e non poteva non ridursi) a una semplice prova d’attore. E lo stesso Claudio Di Palma (Pacebbene) e Mariano Rigillo (Cirillo) sono certamente molto bravi. In particolare lo è Rigillo, che qui dà luogo – mescolando con stile d’alta scuola il grottesco e i brividi di una rassegnata malinconia – a momenti fra i più intensi del teatro degli ultimi tempi. Però, ripeto, rimane appena questo.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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4 risposte a Riecco Cirillo e Pacebbene. Ma ormai il terremoto c’è stato

  1. Erano anni che non leggevo una recensione cosi esaustiva…..
    Grazie!
    Sasà Ferrari

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te dell’attenzione e del giudizio, caro Sasà.
    A presto.
    Enrico Fiore

  3. Associazione Baruffa scrive:

    …Esaustiva, la recensione. Senz’altro. Ma ci preme sottolineare come, al contempo, non si salvi neppure la rappresentazione stessa: il tempo dell'”uscita di emergenza” pare essere saltato; e Manlio Santanelli sembra troppo strenuamente legato a questo testo: confuso, legato all’avanguardia dell’epoca in cui fu scritto, soporifero e pedante. E la recitazione, a nostro parere, non eccelle: i due personaggi si confondono nello stesso prototipo. L’altro male del teatro (italiano?): l’attore-regista-indubbio protagonista…
    Associazione Baruffa

  4. Enrico Fiore scrive:

    Gentili amici,
    grazie per l’attenzione e per l’intervento. Ma credo che siate troppo severi: mi trovate d’accordo sul fatto che il testo (e l’ho scritto) risulta oggi superato, ma ritengo che, considerato in sé, si presenti ancora (e pure questo ho scritto) come una gran bella commedia; e per quanto riguarda la recitazione, mi sembra che almeno Rigillo si allontani dal “prototipo” a cui vi riferite. Infine, sono d’accordo con voi anche sul fatto che la compresenza nella stessa persona dei ruoli dell’attore e del regista non produce, in genere, buoni risultati. Tanto è vero che, nella circostanza, i buoni risultati Claudio Di Palma li raggiunge soprattutto nelle note di regia.
    Enrico Fiore

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