Il «Platonov» di Cechov è un quadro spiegato dall’audioguida

 

Una scena di «Chekhov's first play», lo spettacolo della compagnia irlandese Dead Centre presentato al Vie Festival

Una scena di «Chekhov’s first play», lo spettacolo della compagnia irlandese Dead Centre presentato al Vie Festival

MODENA – «Personalmente, ho sempre avuto bisogno che mi spiegassero le cose, specialmente l’arte. Sono il tipo di persona che visita le gallerie d’arte e passa il tempo a leggere le didascalie accanto ai quadri. Non guardo quasi mai i quadri».
È una delle primissime battute di Bush Moukarzel, regista insieme con Ben Kidd dello spettacolo «Chekhov’s first play (Il primo dramma di Cechov)» che la compagnia irlandese Dead Centre, autentica rivelazione della scena internazionale, ha presentato al teatro comunale «Luciano Pavarotti» di Modena nell’ambito del Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro. E parlo di battuta perché lo spettacolo in questione (ovvero l’allestimento di «Platonov») si basa sul fatto che il pubblico viene provvisto di cuffie per mezzo delle quali ascolta, contemporaneamente, gli attori in palcoscenico e, per l’appunto, uno dei due registi che commenta dal vivo lo spettacolo, dando luogo – in maniera ironica e autoironica, come si evince proprio dalla battuta citata – a una sorta di regia della regia.
In breve, quest’allestimento funziona come l’audioguida che nei musei ti spiega il quadro che hai davanti. Ma mi affretto ad aggiungere che lo spettacolo della Dead Centre non è per niente un gioco svagato, né una delle famigerate «provocazioni». E basta a dimostrarlo appena qualche cenno sul «quadro» qui esposto.
Si tratta del cosiddetto «dramma inedito», scritto da Cechov nel biennio 1880-’81, quando l’autore de «Il giardino dei ciliegi» non aveva che una ventina d’anni. Venne ritrovato soltanto nel 1914, dieci anni dopo la morte di Cechov, privo del frontespizio e, quindi, del titolo. Il titolo «Platonov» gli è stato dato in Francia, probabilmente da André Barsacq. E parliamo di un testo che consiste in uno studio di psicologia individuale, centrato sul vuoto della vita di un dongiovanni di provincia e affogato in un’atmosfera melodrammatica che risente addirittura degl’influssi di Dumas figlio e di Sardou.
Di Platonov un altro dei personaggi dice che, secondo lui, «è il miglior rappresentante dell’indeterminatezza contemporanea». Ed è perciò, senza dubbio, che quel dramma torna puntualmente alla ribalta nei momenti di crisi. Nel ’40 gli americani l’allestirono ambientandolo, col titolo «Fireworks on the James», in uno stato meridionale degli Usa.
Ebbene, si poteva rendere l’«indeterminatezza» in questione meglio che con i mille distinguo, le mille frecciate e i mille dubbi che, attraverso le cuffie (una via di comunicazione artificiale), Moukarzel scarica dall’inizio alla fine sugli spettatori? E si capisce, ovviamente, che poi – e sta in questo l’importanza dello spettacolo – tale discorso s’allarga dal «Platonov» in sé all’odierna condizione esistenziale, insieme del regista e di noi tutti.
Il finale risulta, in proposito, assolutamente folgorante e toccante. Dopo aver esposto una considerazione da regista (Cechov «ha capito che i suoi personaggi dovevano fare qualcosa di ancora più difficile che morire. Dovevano continuare a vivere»), Moukarzel ne espone una da uomo: «Ultimamente non mi sono sentito me stesso. E con ultimamente intendo mai. La mia anima è lenta, stagnante. Mi tormento perché non ho nulla in cui credere. Mi muovo tra gli altri come un’ombra e non so chi sono, cosa voglio, perché sono vivo. Ma devo essere coraggioso. Devo continuare a vivere. Mi domando se questa voce tacerà mai. Questa voce nella mia testa. Questo continuo commentare. Finirà mai? Non sembra neanche la mia voce. Come uscirò dalla mia stessa testa? Dove andrei, se potessi, chi sarei, se potessi, cosa direi? Comincio con una parola. Ma quale?».
Non a caso, del resto, l’invenzione capitale di Moukarzel e Kidd è costituita, sul piano strettamente drammaturgico, dalla cancellazione del personaggio protagonista: nel primo atto Platonov compare soltanto nei commenti che su di lui fanno gli altri personaggi e nel secondo, pur comparendo fisicamente, non dice nemmeno una parola.
Circa gl’interventi compiuti da Moukarzel per quanto riguarda specificamente la sua regia, propongo poi gli esempi seguenti: «Quello è Vojnicev. Volevo fosse chiaro che lui è un personaggio molto triste. Quindi l’ho messo in fondo al palco, separato dagli altri. Da solo»; «Nel testo originale c’era una battuta intera sulla banca, ma era troppo complicata e quindi l’ho tagliata»; «Nell’originale, lei sta partorendo, ma i bambini sul palco possono diventare un incubo. Quindi l’ho tagliato. Ho pensato che l’immagine di una donna incinta fosse abbastanza…».

Un'altra scena dello spettacolo, dato al teatro comunale «Luciano Pavarotti» di Modena

Un’altra scena dello spettacolo, dato al teatro comunale «Luciano Pavarotti» di Modena

Inutile sottolineare, anche qui, l’ironia e l’autoironia demitizzanti che presiedono alla messinscena, con il debito corollario delle risate che suscitano fra gli spettatori. E in tale ambito, l’autentico trionfo è costituito dalla sequenza di queste battute del regista: «A dire la verità, l’attrice è veramente incinta» – «Questo è il problema con questo tipo di spettacoli. La vita si mette in mezzo» – «Perché la vita vera è così… complicata. Si finisce con attori che non ricordano le battute… attrici che… rimangono incinte… Hai la possibilità di spiegare il copione e loro saltano tre pagine, rovinando il commento… avrei voluto lasciarvelo sentire, sapete? Volevo farvi sentire di nuovo le battute. Dovrebbero essere poesia. Non sembrare un talent show…».
Persino all’iperbole surreale arriva un simile stillicidio di corrosive freddure, quando (faccio l’ultimo esempio) Moukarzel se n’esce, a proposito di Trileckij, con la tirata: «I medici dicono che probabilmente fosse impotente… Parlando di impotenza, sapevate che negli anni Novanta la richiesta mondiale di Viagra veniva soddisfatta da una fabbrica nella contea di Cork, in Irlanda? L’intera produzione di Viagra ha subito un forte colpo ed è diminuita nel 2008. Quindi di nuovo, questo spettacolo parla davvero dei giorni nostri, le conseguenze, i paralleli… la proprietà privata… i debiti… il Viagra». Mentre Trileckij si prende la rivincita (altro che impotente, sul piano dell’immaginario collettivo) mescolando in un’incredibile sarabanda, intorno al malcapitato Cechov, i vari David Bowie, Marina Abramovic, Bjork, Prince, Brangelina, Marlon Brando, Angela Merkel, Eric Cantona, Michelle Obama, Salman Rushdie, Putin e via rotocalcheggiando.
Ma la rappresentazione di «Platonov», direte a questo punto, c’è o non c’è? C’è e non c’è. Ci sono i brani sparsi del testo di Cechov, la scenografia di Andrew Clancy con la facciata della grande casa di campagna di Anna Petrovna, i costumi ottocenteschi di Saileóg O’Halloran e persino il samovar in bella mostra sulla tavola. Però l’insieme comunica soltanto se stesso, è come la Gioconda esposta al Louvre: non ci aspettiamo più niente da lei, non esiste più alcun rapporto reale e produttivo tra noi e quel celeberrimo, «proverbiale» dipinto.
Infatti, ben presto salterà tutto in aria: a partire dalla battuta della stessa Anna Petrovna («È come se la casa stesse per crollarci addosso o qualcosa del genere»), prima arriva a buttar giù un pezzo di quella facciata l’enorme palla di ghisa che si usava una volta per le demolizioni e poi sono gli stessi personaggi che, con martelli normali e addirittura un martello pneumatico, prendono ad aprire squarci nelle pareti e nel pavimento. E il simbolismo raggiunge l’acme quando i fuochi d’artificio annunciati dalla padrona di casa diventano le fiamme che si sviluppano sulla palla per la demolizione: il rifiuto della rappresentazione coincide con la fine dell’oggetto della rappresentazione, quella borghesia dedita, per l’appunto, solo agl’intrattenimenti.
Per giunta, a ribadire e riassumere un simile impianto concettuale si pone con icastica evidenza la pistola che, tanto cara a Cechov, qui si trasforma nell’autentico calumet della tribù in via d’estinzione che abbiamo di fronte: se la passano, l’uno dopo l’altro, tutti i personaggi e tutti se la puntano alla tempia senza che parta il colpo.
Superfluo, infine, sottolineare la bravura degl’interpreti: Dylan Tighe, Ray Scannell, Tara Egan-Langley, Breffni Holahan, Clara Simpson e Liam Carney. Penso, piuttosto, a quel Platonov che, già «straniero» rispetto agli altri personaggi (indossa jeans, giubbotto e cuffie, forse per ascoltare anche lui i commenti del regista), al termine resta solo al proscenio con il sipario chiuso alle spalle: fuori dallo spettacolo, certo, ma insieme e soprattutto dal teatro.
In conclusione, il «Chekhov’s first play» della Dead Centre è importante in generale, come ho detto. Ma in specie lo è perché – stante il fatto che il teatro s’è ridotto a un piccolo mondo autoreferenziale che s’illude d’essere un grande mondo, anzi il mondo tout court – assesta un bel pugno nello stomaco di quest’illusione.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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