Un uomo e una donna sulla croce. Somigliano alla pistola Glock

Sophia Hill e Antonis Myriagkos in una scena di «Encore» di Theodoros Terzopoulos, presentato al Vie Festival (le foto dello spettacolo sono di Johanna Weber)

Sophia Hill e Antonis Myriagkos in una scena di «Encore» di Theodoros Terzopoulos, presentato al Vie Festival
(le foto dello spettacolo sono di Johanna Weber)

MODENA – Ci sono due parole-chiave in «Encore», lo spettacolo di Theodoros Terzopoulos che – a conclusione della trilogia iniziata con «Alarme» e proseguita con «Amor» – l’Attis Theatre ha presentato al Teatro delle Passioni di Modena nell’ambito della tredicesima edizione del Vie Festival promosso da Emilia Romagna Teatro.
Le due parole di cui dico sono quella che costituisce il titolo, appunto «ancora», e «frammenti». E risultano strettamente connesse fra loro, poiché – se il testo, tratto dai versi del giovane poeta greco Thomas Tsalapatis, consiste nel rincorrersi e nell’accavallarsi di battute brevissime (ma che solo apparentemente si esauriscono in sé) – la strenua insistenza con la quale vengono proposte conduce a un dilatarsi del tempo oltre quella brevità, e dunque a un conflitto fra l’attesa d’essere e l’essere in atto.
Non a caso, alla prima battuta («Ancora. Ancora, ancora. Ancora») ne segue poco più avanti un’altra che suona: «Affondo nel profondo, dentro nel profondo, nei frammenti, nei frammenti». E si capisce, poi, che il conflitto di cui sopra si trasferisce – qui e ora, nello stillicidio dell’esistenza quotidiana – in uno scontro inesausto fra quelle parole e il corpo dell’uomo e della donna in campo nell’occasione. «Mastichi, mastichi. Mi mastichi, mi mastichi», dice a un certo punto uno di quei due personaggi/funzione. E l’altro replica: «Mastichi le parole. Mastichi, mi mastichi».

Theodoros Terzopoulos

Theodoros Terzopoulos

Le parole che pronunciano l’uomo e la donna di «Encore» non sono, insomma, che un’estensione del loro corpo. Il corpo subisce ferite che gettano sangue e le parole bevono quel sangue. Di modo che, in un crescendo surreale e metaforico che non disdegna un’acre ironia, si va a comporre un disperato (e, pure, amorevole) puzzle in cui le parole e gli elementi del corpo si scambiano continuamente i ruoli: sono le stesse parole che, dopo aver bevuto il sangue scaturito dalle ferite del corpo, prendono a loro volta a sanguinare; e non c’è altro sbocco, allora, se non quello d’identificarsi con le parole medesime. Emblematiche, dunque, appaiono in proposito le battute: «Sto ululando dentro la parola, sto piangendo dentro la parola, sto ridendo dentro la parola» e «La parola è un assassinio. La parola nello stomaco, nel petto, nel bacino, nelle ginocchia, nel collo, nei piedi, nelle dita, nei reni, nel fegato, nella milza, nella bile, nel cuore».
La conclusione è ovvia. Nel mistero e nel vuoto in cui annaspiamo, alla fine l’unico appiglio è proprio la parola. «Per dirti la verità, mio caro, devo diventare di nuovo bambina», dice la donna. E per diventare di nuovo bambini, cioè per recuperare l’innocenza, si ha bisogno per l’appunto della parola. «Parla, parla, parla», invoca l’uomo. E se la donna replica con un «Ancora?», lui conclude deciso: «Ancora, ancora».
Ci si rende conto, quindi, che il conflitto in questione nasce dalle regioni lontane e profondissime del mito, là dove si fondarono la conoscenza e il rapporto col mondo e con la vita. Non dimentichiamo, in proposito, le parole decisive del quarto Vangelo: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni, 1, 1-14).

Un'altra scena dello spettacolo, basato sui versi di Thomas Tsalapatis

Un’altra scena dello spettacolo, basato sui versi di Thomas Tsalapatis

Venendo adesso allo spettacolo in sé, mentre lo vedevo mi è venuta in mente la Glock, la pistola austriaca che è una delle più diffuse nel mondo. Ha la sicura integrata nel grilletto, per cui, premendo quest’ultimo, nello stesso tempo si disattiva la sicura e si spara. E lo spettacolo di Terzopoulos, che con esso si conferma come uno dei maestri della scena internazionale, funziona esattamente così: innesca lo slancio naturale verso la vita nel momento stesso in cui neutralizza i blocchi morali, psicologici e culturali che lo impediscono.
C’è un’immagine simbolica potente ed evidente che sintetizza questo procedimento: mentre si avvicinano l’uno all’altra, l’uomo e la donna tengono i lunghi coltelli con cui si affronteranno sollevati orizzontalmente davanti al petto, non puntati, come sarebbe logico, verso l’«avversario». E in tal modo quei coltelli diventano, proprio, un equivalente del grilletto con la sicura integrata della Glock.
Peraltro, Terzopoulos, autore anche della scena, fa muovere l’uomo e la donna su una gigantesca croce. E la croce, lo sappiamo, è a sua volta simbolo di morte e resurrezione insieme. Così questo spettacolo, addirittura travolgente, ci comunica una semplice ma troppo spesso ignorata verità: il corpo muore nelle parole quando le parole imprigionano e castrano l’istinto, le parole muoiono nel corpo quando il corpo si riappropria il suo destino insopprimibile di macchina sensuale. Di modo che il lottare fra loro dell’uomo e della donna è, sì, anche un’esplosione erotica, ma per l’appunto nell’accezione mitica dell’aggettivo: dal momento che, secondo Platone, è figlio della Penuria, Eros ci dà dolore, ci affanna.
Ecco, dolore e affanno costituiscono, infine, le stimmate della prova inenarrabile dei due interpreti, Sophia Hill e Antonis Myriagkos. Sono meravigliosi perché, al di là del teatro, li senti come compagni di strada. E non a caso recitano, naturalmente, in greco. Le parole che dicono si esauriscono spesso in mugolìi indistinti o in rauchi versi animaleschi. Ma accade che, poi, lei canti certe risentite canzoni di Panagiotis Velianitis. E canzone in greco si dice «tragoudi».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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