Quando a recitare l’esilio sono attori a loro volta esuli

Un momento di «Empire», lo spettacolo di Milo Rau presentato al Contemporanea Festival (le foto sono di Marc Stephan)

Un momento di «Empire», lo spettacolo di Milo Rau presentato al Fabbricone di Prato (le foto sono di Marc Stephan)

PRATO – «Vivere al tempo del crollo». È il tema della XV edizione di «Contemporanea Festival», promossa dal Teatro Metastasio in apertura della stagione 2017-’18. E così lo spiega il direttore della rassegna Edoardo Donatini: «Il Crollo è metafora, astrazione, realtà dell’epoca estrema in cui viviamo; un tema intimo ma universale che può avere un’accezione concreta, astratta, locale, globale, che può appartenere all’etica del gruppo, alla politica, al sistema economico di un paese, a un principio filosofico e culturale; un punto di rottura, un terremoto; qualcosa che comunque ha un collegamento inevitabile con ogni processo di crisi».

Milo Rau

Milo Rau

Dunque, è ovvio che, date queste premesse, non poteva mancare la presenza di Milo Rau, di colui che nel 2007 diede alla casa di produzione che aveva appena fondato il nome, davvero tutto un programma, di «International Institute of Political Murder (Istituto Internazionale di Omicidio Politico)». Perché il quarantenne regista di Berna, ormai osannato, è sul serio uno che non le manda a dire. Si reca nelle zone di conflitto con la stessa determinazione di un reporter di guerra. E in proposito basterebbe ricordare come nel 2013 il suo spettacolo «I processi di Mosca», che ripercorreva, giusto, la storia del processo intentato a tre membri del celebre gruppo punk russo Pussy Riot, sia stato brutalmente interrotto dalla polizia.
Non meno impavidi, tanto per fare altri due esempi, furono del resto gli «omicidi» commessi da Rau con «Gli ultimi giorni dei Ceausescu», che metteva alla gogna l’ex dittatore rumeno, e «Hate Radio (Radio Odio)», in cui attaccava senz’alcuna remora i responsabili del genocidio ruandese prendendo spunto dall’emittente razzista, realmente esistita a Kigali negli anni ’90, che soffiava sul fuoco della rivalità fra Tutsi e Hutu. E per restare all’Africa, non si può dimenticare che nel 2015 Milo Rau riunì a Bukavu, con lo spettacolo «Il tribunale sul Congo», ben sessanta testimoni ed esperti della guerra civile che da oltre vent’anni aveva trasformato in un inferno l’est del paese.
All’Europa, invece, il regista bernese ha dedicato una trilogia iniziata nel 2014 con «The Civil Wars (Le guerre civili)», proseguita l’anno dopo con «The Dark Ages (Le epoche buie)» e conclusa, adesso, con «Empire (Impero)», lo spettacolo che Rau ha portato al Fabbricone di Prato in esclusiva per l’Italia. E prima di scendere nei particolari, s’impone una considerazione, politica nel senso migliore dell’aggettivo. Come purtroppo sappiamo, l’Europa unita, nata per essere una comunità di popoli, s’è ridotta ad essere la comunità delle banche. E risulta oltremodo significativo che una denuncia chiara dei mali procurati al nostro continente da questa deriva giunga dalla Svizzera, l’autentico cuore del capitalismo europeo.
In «The Civil Wars» si raccontava la storia di un giovane belga partito per partecipare alla jihad in Siria e quella del padre che tentava di rimpatriarlo, in «The Dark Ages» si affrontava il problema dello smembramento dell’ex Jugoslavia e ora, in «Empire» (il titolo, si capisce, è riferito, sarcasticamente, per l’appunto all’Europa), prendono corpo le storie di tragedie artistiche e reali, di torture, di fughe, di sofferenze, di morti e di resurrezioni che disegnano il quadro in cui si specchia un continente sospeso tra un presente confuso e un futuro incerto.

Un altro momento di «Empire»

Un altro momento dello spettacolo di Milo Rau

Il dato fondamentale è che queste storie – collegate dal filo rosso della condanna all’esilio dei loro protagonisti – vengono raccontate da attori che le hanno vissute personalmente, in quanto a loro volta esuli o rifugiati: il siriano curdo Ramo Ali, un altro siriano, Rami Khalaf, il greco Akillas Karazissis e l’ebrea rumena Maia Morgenstern; mentre il pregio straordinario del testo consiste nel fatto che nell’«ambiente» chiuso degli eventi minimi e personalissimi qui evocati (vedi, poniamo, la mamma siriana che per i suoi quattordici figli «cucinava almeno quindici chili di patate al giorno» o la Maia bambina per la quale «una bottiglia di Pepsi era il sogno assoluto») irrompono incessantemente il vento della Storia e il respiro dell’Umanità. E propongo, al riguardo, un solo esempio.
In due punti, si accenna prima alla «guerra civile greca finita nel 1949» e poi alla dittatura dei colonnelli. E, così, si genera (non importa se consapevolmente o meno) un collegamento che getta una sia pur debole luce su quello che ancora oggi è un buco nero nella storiografia dell’Europa. La dittatura dei colonnelli ebbe le sue radici proprio nel conflitto fratricida che dilaniò la Grecia fra il ’43 e il ’49: una sanguinosissima guerra civile che nacque quando – dopo la spartizione che assegnò a Stalin la Bulgaria e a Churchill la Grecia – gli accordi di Varkiza sancirono la collaborazione al governo, il primo esempio di compromesso storico, fra il Partito Comunista e la borghesia nazionale, con la conseguente caccia implacabile ai partigiani comunisti che s’era rifiutati di consegnare le armi.
Tuttavia, un altro pregio decisivo del testo è che non scivola mai, come potrebbero far temere i passi che ho appena citato, nello sterile ideologismo. Sentite, nel merito, uno dei ricordi di Maia: «A casa ho raccontato ai miei genitori di essere stata alla manifestazione e di aver gridato: “Abbasso Ceausescu! Abbasso il comunismo!”. Mio padre mi chiese: “Ho capito bene, hai gridato “Abbasso il comunismo!”?. E io risposi: “Sì, sì, l’ho gridato molte volte”. Ha taciuto e non ha detto più niente».

Ancora una scena di «Empire»

Ancora una scena di «Empire»

Si poteva rendere con delicatezza e, insieme, potenza maggiori la disillusione dolorosa del vecchio comunista? E tali delicatezza e potenza trovano poi il corrispettivo nella salutare ironia che interviene a battere in breccia la retorica quando si affrontano problemi tremendi come, poniamo, il conflitto interreligioso. Eccovene, anche qui, un solo esempio: «Accanto alla scuola c’era una moschea, l’imam chiamava alla preghiera cinque volte al giorno. Non ho niente contro l’Islam, ma la voce era talmente brutta che sparavo sull’altoparlante con un fucile ad aria compressa».
L’orrore, dal canto suo, è compreso fra Auschwitz, il massacro di Hama nel 1982 e le foto dei dodicimila volti di persone uccise nelle prigioni di Assad. Ma ci si dice, con altrettanta chiarezza, che l’unico antidoto contro l’orrore può essere trovato ridestando con la memoria le confortanti epifanie culturali del passato lontano o recente: Medea, la carrozzina di Eisenstein che precipita lungo la scalinata a Odessa, Fassbinder, «La passione di Cristo» di Mel Gibson (in cui Maia Morgenstern interpretava Maria), «Lo sguardo di Ulisse» di Angelopoulos, la musica di Eleni Karaindrou… E il tutto si condensa e si esalta – forse è il momento più alto di questo spettacolo come pochi altri bello e importante – nella visione di un salvifico abbraccio fra il passato e il presente: «I miei figli avevano paura nella casa di mio padre, com’era accaduto a me negli anni ’60: il vento tra i pini, il fruscio del mare. Ma per me l’antichità è lì. Un giorno, sui campi davanti alla casa, sulle antiche rovine farò uno spettacolo. Lungo il viottolo arriva Agamennone sul vecchio maggiolino Volkswagen di mio padre. Scende dalla macchina e le sue parole salgono in alto verso i pini».
Venendo adesso all’allestimento, basta dirne, per riassumere, che traduce tutto quanto sopra con una fedeltà e una pregnanza addirittura impressionanti. L’impianto scenografico consiste in una struttura che, girando su se stessa, mostra da un lato una casa semidistrutta dalle bombe e dall’altro un ambiente che è, insieme, cucina, tinello e stanza da letto. E una videocamera a circuito chiuso manda su uno schermo i volti degli attori/testimoni che raccontano le loro storie alternati con filmati dei luoghi che a quelle storie sono relativi.
Così viene sottolineato anche sul piano visivo l’interscambio fra l’«interno» e l’«esterno» su cui si fonda il testo. E per quanto riguarda la prova degl’interpreti, non è possibile, s’intende, parlarne nei termini usuali. Non si può dire che Ramo Ali, Rami Khalaf, Akillas Karazissis e Maia Morgenstern sono bravi, bisogna dire che sono e basta.
«Questa è la nostra libertà. La solitudine», conclude Maia a nome di tutti gli esuli. Ma «Empire» dimostra che quella solitudine può essere trasformata in una tensione – più forte proprio perché individuale, non condizionata dal compromesso – verso la dignità dell’esistere con pienezza. C’è chi lo ha fatto, e altri lo faranno in avvenire. Uscendo dal Fabbricone confuso tra il pubblico (e qualcuno piangeva senza riuscire a frenarsi), ho pensato a «Sulla spiaggia e di là dal molo» di Mario Tobino: «La vita continuava con la sua bellezza e ferocia. Era ancora più emozionante individuare in un angolo, in un luogo, lo stesso lampo del passato; luceva la speranza di trasfigurare anche il presente». In fondo è ciò che dice, con le sue note che sempre tornano su se stesse, dolci e fermissime a un tempo, pure il brano della Karaindrou, «By the sea», che attraversa lo spettacolo dall’inizio alla fine.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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