Se l’interprete di Amleto spacca la testa a Marx, Lenin e Mao

Un momento di «Hamletmachine», lo spettacolo di Robert Wilson che ha aperto a Vicenza la rassegna «Conversazioni» (le foto dell'allestimento sono di Andrea Kim Mariani)

Un momento di «Hamletmachine», lo spettacolo di Robert Wilson che ha aperto la rassegna «Conversazioni»
(le foto dell’allestimento sono di Andrea Kim Mariani)

VICENZA – Lo sappiamo, Heiner Müller è il maggior drammaturgo tedesco dopo Brecht. E «Hamletmaschine» costituisce non solo il testo-chiave della sua produzione, ma anche, e soprattutto, una delle chiavi indispensabili per capire che cosa può essere il teatro in generale rispetto al mondo d’oggi e in che modo possono essere messi in scena oggi i capolavori della tradizione, in particolare quelli «proverbiali» come, nella circostanza, per l’appunto «Amleto».
Me ne sono ulteriormente convinto mentre – all’Astra, nell’ambito di «Conversazioni», il 70° ciclo di spettacoli classici del Teatro Olimpico di Vicenza curato da Franco Laera – assistevo alla ripresa, la prima dopo trentuno anni, dello storico allestimento di «Hamletmaschine» dato da Robert Wilson il 7 maggio del 1986 alla New York University con la partecipazione degli studenti di quest’ultima.
Oggi la nuova versione di quel celebre spettacolo si basa su un progetto della Change Performing Arts commissionato dal Festival dei Due Mondi di Spoleto e realizzato con la partecipazione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica «Silvio d’Amico». Ma, prima di procedere all’analisi dello spettacolo medesimo, sarà utile fornire qualche cenno sul testo di Müller.

Heiner Müller

Heiner Müller

«Hamletmaschine», scritto nel 1977 dopo il primo viaggio dell’autore negli Stati Uniti e dopo che Müller aveva tradotto l’«Amleto» di Shakespeare per un teatro di Berlino Est, è un copione brevissimo: appena sei pagine e cinque scene, intitolate, nell’ordine, «Album di famiglia», «L’Europa delle donne», «Scherzo», «Pest a Buda Battaglia per la Groenlandia» e «Nell’attesa selvaggia / Dentro la orribile armatura / Millenni». Müller disse che «potrebbe essere letto come un opuscolo contro l’illusione che si possa rimanere innocenti in questo nostro mondo». Mentre, secondo Gordon Rogoff, «sembra uno scarabocchio dadaista». E anche se rischio che appaia come un’osservazione paradossale o addirittura come una battuta, ritengo che le due affermazioni, quella dell’autore e quella del critico, coincidano perfettamente.
In breve (e così ritorno a quanto ho annotato all’inizio, che, cioè, il testo in questione costituisce una delle chiavi indispensabili per capire che cosa può essere il teatro in generale rispetto al mondo d’oggi e in che modo possono essere messi in scena oggi i capolavori della tradizione, in particolare quelli «proverbiali» come, nella circostanza, per l’appunto «Amleto»), qui Müller non si propone di rintracciare «Amleto» nel presente, ma rintraccia il presente in «Amleto». E dunque, nel solco della frammentarietà ch’è tipica del suo teatro, da un lato cita, poniamo, Ezra Pound, Eliot, Andy Warhol e Susan Atkins e dall’altro si spinge, come lui stesso ha dichiarato, fino alla dimensione dei «giochi per bambini».
Ecco, allora, che – faccio solo un esempio – s’abbracciano il richiamo all’insurrezione ungherese del 1956 e il fatto che (giusto uno «scherzo») nell’Università dei defunti, dalle loro tombe/cattedre, i filosofi morti gettano i propri libri su un Amleto che si aggira lì «con l’atteggiamento di un visitatore di musei (teatri)».
Risultano, perciò, assolutamente emblematiche e dirompenti le battute che pronunciano, rispettivamente, Amleto e l’interprete di Amleto: «Io ero Amleto» (non a caso, è l’incipit del testo) e «Io non sono Amleto. Non recito più alcuna parte. Le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano il sangue alle immagini. Il mio dramma non ha più luogo? Dietro di me verrà approntato l’ornamento. Da gente cui il mio dramma non interessa, per gente cui non ha niente da dire. Neanche a me interessa più. Non sto più al gioco».

Robert Wilson (foto di Lesley Leslie-Spinks)

Robert Wilson
(foto di Lesley Leslie-Spinks)

La paralisi dell’«essere o non essere» shakespeariano si traduce, quindi, nella considerazione seguente, riferita per l’appunto agli scontri fra la polizia e gl’insorti a Budapest: «Il mio posto, se il mio dramma dovesse ancora aver luogo, sarebbe su entrambi i lati del fronte, tra i due schieramenti, au dessus de la mêlée (al di sopra della mischia, n.d.r.)». Ed è per questo, poi, che la fotografia dell’autore viene strappata: per dire dei dubbi esistenziali, ideologici e politici che dilaniavano Müller. Salvo – a titolo di ripresa (ma con quanto amara allusività!…) della dimensione ludica di cui sopra – la sequenza nella quale l’interprete di Amleto prima pronuncia la battuta: «I miei pensieri sono ferite nel cervello. Il mio cervello è una cicatrice. Voglio essere una macchina. Braccia per afferrare, gambe per camminare, nessun dolore; nessun pensiero» e poi, dopo essere entrato nell’armatura, spacca con un’ascia le teste di Marx, Lenin e Mao comparsi in forma di tre donne nude.
Del resto, un ossimoro irriducibile connota pure, s’intende, il personaggio/non personaggio di Ofelia. Prima annuncia: «Mi strappo dal petto l’orologio che era il mio cuore» (col che siamo, proprio, in pieno dadaismo) e poi, immobilizzata su una sedia a rotelle, grida: «Abbasso la gioia della sottomissione. Viva l’odio, il disprezzo, la rivolta, la morte». Per concludere con le parole della Atkins riferite alla «Manson family»: «Quando con il vostro coltello da macellaio andrete nelle stanze da letto, saprete la verità».
Ebbene, e vengo con ciò allo spettacolo, non poteva darsi regista più adatto di Wilson a mettere in scena tutto questo. Infatti, Müller (e non a caso fu lui a chiamare l’artista statunitense «il mago di Waco») ritenne che la versione di «Hamletmaschine» concepita da Wilson fosse «il miglior spettacolo di sempre» tratto dai suoi testi. E d’altronde, non per pura coincidenza era cominciata proprio con quell’allestimento la leggendaria amicizia fra i due: giacché si trattò di un’amicizia fondata su uno straordinario rapporto creativo, che portò all’immissione di testi di Müller in tutta una serie di spettacoli di Wilson, da «The civil wars» e «Medea» (1984) ad «Alceste» (1986), da «The forest» (1988) a «La mort de Molière» (1994). E un testo di Müller, «Paesaggio con Argonauti», era compreso anche in «Der Ozeanflug (Il volo oceanico)», lo spettacolo (venne presentato a Taormina nel 1998, l’anno dopo l’assegnazione a Wilson del Premio Europa per il Teatro) che il maestro americano realizzò con il Berliner Ensemble per celebrare il centenario della nascita di Brecht.
Ora, per riassumere quello che Wilson ha fatto con e di «Hamletmaschine» (gli valse un Obie Award come miglior regista), potrei servirmi proprio di una battuta: Wilson s’è comportato, nei confronti del testo di Müller, in maniera da trasformarlo in un autentico vampiro. Ma, naturalmente, voglio dire che la sua regia ha inverato – fino a identificarsi completamente e strenuamente con essa – la battuta di cui sopra: «I miei pensieri succhiano il sangue alle immagini». Nel senso che, in questo spettacolo, le parole di Müller letteralmente diventano le scene, le luci, i movimenti e i gesti creati da Wilson.
In proposito, l’inizio è addirittura folgorante. Poiché – se, nel suo testo, Müller dichiara senza mezzi termini l’odierna impossibilità di rappresentare l’«Amleto» in sé e l’odierna impossibilità del teatro di rappresentazione in genere – Wilson va oltre, dichiarando con altrettanta fermezza l’impossibilità di rappresentare lo stesso testo di Müller in quanto tale. E infatti comincia col metterlo in stand by: quell’inizio è un lungo prologo muto, costituito da una serie di azioni lente e reiterate che – mentre si sentono, ad intervalli più o meno regolari, ululati di lupi e raffiche di mitra – vengono avviate dallo schiocco di un legno percosso. Il rimando è al «Gaito kamishibaiya», l’antico narratore giapponese che, giusto, batteva due pezzi di legno per annunciare il suo arrivo nei villaggi. E questo sottolinea in maniera finanche didascalica la dimensione rituale che, come si sarà capito, presiede allo spettacolo di Wilson.

Un altro momento dello spettacolo con Marx, Lenin e Mao trasformati nel Trio Lescano

Un altro momento dello spettacolo con Marx, Lenin e Mao trasformati nel Trio Lescano

Così, l’alto approdo dell’allestimento (intitolato «Hamletmachine», secondo la traduzione in inglese del titolo originale tedesco) sta nel fatto che, pur senza parere, le reiterate azioni mute in questione – poniamo, una donna che da una sedia girevole rivolge al pubblico un grido senza suono, un giovane che si punta una pistola alla tempia, un atleta ricoperto d’oro la cui corsa si blocca puntualmente sul nascere… – finiscono a rivelarsi come rapinose metafore visive, che traducono i temi decisivi messi in campo da Müller con precisione e icasticità assolute.
Nessuna rappresentazione naturalistica avrebbe potuto ottenere un simile risultato. E nel solco di tale premessa, è ovvio che il testo di Müller si manifesta, quando poi viene utilizzato, come uno degli «objets trouvés» cari, per l’appunto, ai dadaisti: con le parole ridotte a una proiezione sul fondale o affidate a una recitazione spezzata e anch’essa rallentata. Il tutto in parallelo con i continui cambi di prospettiva determinati dallo spostamento degli scarsi arredi scenici (un tavolo, delle sedie, un albero stilizzato) e con lo straniamento indotto da intermezzi coreografici da musical.
Non sorprende, perciò, che le più strepitose invenzioni di Wilson attengano alla sottolineatura per contrasto. E al riguardo basta un solo esempio. Il Marx, il Lenin e il Mao che nel testo di Müller si presentano come tre donne nude qui diventano tre donne vestitissime. E poiché sono vestite alla maniera del Trio Lescano, questo moltiplica, certo, l’amaro sarcasmo dell’autore. Ma il fatto che appaiano piazzate dietro il tavolo di cui sopra in equilibrio instabile sulle sedie serve, per giunta, a richiamare un’altra decisiva invenzione: prima che venga strappata la fotografia di Müller, vengono strappati due fogli completamente bianchi, poiché – nella temperie post-ideologica e, in genere, post-culturale che ci tocca – l’impotenza della scrittura precede quella del singolo scrittore, lo condanna già in partenza alla solitudine dell’incomunicabilità.
Con ciò dico anche dell’eccezionale coerenza che lega fra loro i vari elementi dello spettacolo. E dunque, poniamo, i costumi di Micol Notarianni risultano, come ho dimostrato con l’accenno a quelli del «Trio Lescano», estremamente aderenti ai contenuti del testo. Penso, sempre a titolo d’esempio, al fatto che accoppiano le divise della Germania nazista e le mises da punk, per sottolineare da un lato la violenza cieca in cui l’Europa ha annegato la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e dall’altro (data l’epoca in cui «Hamletmaschine» fu scritto) la consistenza soltanto formale della «rivoluzione» giovanile che guardava, per intenderci, ai Clash e ai Sex Pistols.
Lo stesso discorso vale per la colonna sonora. «Is that all there is? (È tutto qui?)» – la canzone di Jerry Leiber e Mike Stoller che, resa celebre negli anni ’60 da Peggy Lee, fu tratta non a caso dal racconto di Thomas Mann «Disillusionment» – viene eseguita al piano con un solo dito; e si sente, cantato da Jessye Norman, il lied di Schubert «Der Zwerg (Il nano)», il cui testo, di Matthäus Casimir von Collin, racconta la storia di un nano, appunto, che, dopo aver aiutato la sua regina a morire, sceglie per sé l’esilio perenne sul mare. Si poteva rendere meglio il risultato del crollo dell’Utopia anche per colpa di tanti intellettuali e artisti impegnati?
Non mi resta, adesso, che citare tutti i bravissimi attori/performer dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica «Silvio d’Amico»: Liliana Bottone, Grazia Capraro, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Francesco Cotroneo, Angelo Galdi, Alice Generali, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Michele Ragno, Camilla Tagliaferri, Luca Vassos e Barbara Venturato.
Ma, per concludere, penso che la dilatazione del tempo messa in atto da Wilson traduca l’ossessione di voler catturare nel finito del palcoscenico almeno un barlume dell’infinito della vita. E così, vedendo questo spettacolo, ho provato la stessa sensazione – di smarrimento e conforto insieme – che provai nel museo Marmottan di Parigi guardando i quadri di Monet. Lui, negli ultimi anni, e quasi cieco, metteva le sue ninfee in tele sempre più grandi, a voler catturare l’anima della luce e una maggiore porzione del mondo.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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