A tavola con Riccardo: mancano i cavalli ma c’è il cinghiale

Una scena di «Roses», riattraversamento del «Riccardo III» presentato alla Biennale Teatro da Nathalie Béasse (le foto che illustrano l'articolo sono di Wilfried  Thierry)

Una scena di «Roses», riattraversamento del «Riccardo III» presentato alla Biennale Teatro da Nathalie Béasse
(le foto che illustrano l’articolo sono di Wilfried Thierry)

VENEZIA – «Un cheval! Un cheval! Mon royaume pour un cheval!». E una. «Un cheval! Un cheval! Mon royaume pour un cheval!». E due. «Un cheval! Un cheval! Mon royaume pour un cheval!». E tre. «Un cheval! Un cheval! Mon royaume pour un cheval!». E quattro. E c’è pure l’originale inglese: «A horse, a horse, my kingdom for a horse!».
Dunque, in «Roses» – il testo che Nathalie Béasse ha presentato nel Teatro alle Tese come secondo momento della sua «personale» nell’ambito del quarantacinquesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale – la celeberrima battuta di Riccardo III (appunto «Un cavallo! Un cavallo! Il mio regno per un cavallo!») viene ripetuta per ben cinque volte rispetto alle sole due previste da Shakespeare. E una simile, ossessiva ripetizione sta ad indicare che questo riattraversamento della tragedia in parola (il titolo «Roses» rimanda evidentemente alla Guerra delle Due Rose che fa da sfondo alla sanguinosa vicenda personale del deforme sovrano) si prefigge due scopi: da un lato, quello di battere in breccia, giusto, la ripetitività che il teatro si ostina a praticare, specialmente nei riguardi dei classici; e, dall’altro, quello di un conseguente abbassamento di tono nella rappresentazione di «Riccardo III».
Ma tanto, come forse si sarà intuito, avviene solo nel testo originale della Béasse, che l’ufficio stampa della Biennale mi mandò via e-mail il 24 luglio scorso. Di quell’ossessiva ripetizione non c’era più traccia: né nella traduzione in italiano del testo in questione, che mi fu consegnata a mano il giorno prima che vedessi lo spettacolo, né, ciò che conta soprattutto, nello spettacolo medesimo andato in scena con la regia dell’autrice. E così veniva meno l’unico motivo di un qualche interesse che «Roses» potesse offrire.
La ripetitività stava solo, ma ora destituita di significato, nella sequenza d’avvio, in cui un’attrice, a più riprese, si stendeva col busto su un lungo tavolo, bene attenta ad infilarsi esattamente fra i bicchieri. E per il resto, si assisteva alla recitazione andante di brani sparsi del «Riccardo III», inframmezzati da «a parte» in chiave di banalissimo straniamento («Chi fa Riccardo? – Io. – Io. – Io. – No, avevamo detto che lo facevo io», oppure: «Allora, nella parte che segue io sono Ely e Stanley», o ancora: «In questa scena sono Riccardo») e da pantomime comiche relative ai delitti in serie qui raccontati. E vale la pena di ricordare, a proposito di quest’ultimo punto, che assai di meglio ci fece vedere l’anno scorso la compagnia inglese Spymonkey nello spettacolo, «The complete deaths», in cui, nella Basilica Palladiana di Vicenza, per l’appunto rivisitò, comicamente, tutte le morti che ricorrono nei testi del Bardo.

Un'altra scena di «Roses»

Un’altra scena di «Roses»

Fra le altre invenzioni proposte da «Roses» cito poi, a titolo d’esempio, l’assaggio del vino (eravamo o non eravamo a tavola con Riccardo?) da parte degli attori, schierati al proscenio a far schioccare debitamente la lingua; la banana piazzata sulla fronte del re al posto della corona; e le solite danze e corse in tondo che tanto piacciono alla Béasse. E per quanto riguarda tali danze e corse, occorre obiettare all’autrice e regista francese, la quale afferma: «Ciascuno dei miei spettacoli è come il seguito di quello che lo precede», che il riprendere determinati stilemi può significare uno sviluppo del discorso solo se quegli stilemi servono, in guisa dei balzi successivi dell’atleta nel salto triplo, a giovarsi dell’energia e dello slancio prodotti dai balzi precedenti. Altrimenti si tratta di manierismo. E il manierismo è esattamente il contrario del processo creativo.
Inutile aggiungere che, mentre scompariva la fatidica battuta di cui all’inizio (sostituita dalle seguenti e molto più insapori: «Datemi un altro cavallo!» e «Un cavallo! Un cavallo, presto!»), faceva bella mostra di sé una testa di cinghiale ch’era l’ovvia materializzazione della battuta: «Stanley sognò il cinghiale che gli strappava l’elmo». E a questo punto non resta che annotare la prova altrettanto ovvia dei vari Sabrina Delarue (Margherita), Étienne Fague (Riccardo e altri personaggi), Karim Fatihi (Riccardo e altri personaggi), Érik Gerken (Riccardo e altri personaggi), Béatrice Godicheau (la Duchessa), Clément Goupille (Riccardo e altri personaggi) e Anne Reymann (Elisabetta).
Insomma, ripeto la stessa osservazione che ho fatto a proposito di Ene-Liis Semper: mi costa una fatica immane credere che la Nathalie Béasse di «Roses» sia la stessa persona che ha creato uno spettacolo intelligente e coinvolgente come «Le bruit des arbres qui tombent».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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