Quegli zombi animati nel fango da Sibelius e Papaioannou

Un momento di «NO43 Filth», lo spettacolo della estone Ene-Liis Semper presentato alla Biennale Teatro

Un momento di «NO43 Filth», lo spettacolo della estone Ene-Liis Semper presentato alla Biennale Teatro

VENEZIA – Gli spettatori entravano in sala attraversando l’installazione di Katrin Brack, Leone d’Oro alla carriera: un intrico di elementi (un po’ liane, un po’ stalattiti, un po’ tentacoli) che calavano dall’alto immersi in una luce lattiginosa. Sembrava di attraversare l’argentea purezza di un bosco di betulle. Ma, una volta entrati in sala, quegli spettatori si trovavano di fronte all’esatto contrario: gli attori/performer che pestavano i piedi, in una sorta di riscaldamento prima della gara, nello strato di fango che sostituiva il palcoscenico, dandosi il tempo con brevi grida gutturali.
Parliamo di «NO43 Filth», lo spettacolo che la video artista, lei stessa performer e regista estone Ene-Liis Semper ha presentato nel Teatro alle Tese nell’ambito del quarantacinquesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale. E innanzitutto preciso che si tratta di un allestimento ispirato a «Il demone meschino» di Sologub. È importante sottolinearlo, e non tanto in riferimento alla trama, che qui non esiste, quanto, e soprattutto, in riferimento al fatto che l’autore simbolista russo definì il suo romanzo, da taluni considerato il più perfetto dopo quelli di Dostoevskij, uno «specchio» che riflette «in modo ugualmente esatto» sia il «mostruoso» che «il bello».
Voglio dire che appunto su quest’ossimoro si fonda «NO43 Filth». Il termine inglese «filth» vale, insieme, sporcizia (nel senso materiale) e sozzura (nel senso spirituale e morale). E a tale doppia valenza negativa s’accompagnano e s’oppongono le raffinate cadenze del «Valzer triste» di Sibelius che ricorre dall’inizio alla fine dello spettacolo. È la traduzione fedelissima di ciò che costituisce il cuore ideologico del romanzo di Sologub: in cui il demone Nedotykomka rappresenta, sotto specie di «doppio» maieutico o «proiezione» allucinata del protagonista Peredònov, un emblema del passaggio dal romanticismo degli eroi ottocenteschi alla brutalità e alla perversione odierne.

Ene-Liis Semper

Ene-Liis Semper

Ma il fatto che nello spettacolo di Ene-Liis Semper si trascorra di continuo da fasi di stallo a improvvise accelerazioni mi suggerisce di accoppiare il «Valzer triste» di Sibelius con un’altra musica che già mi tornò in mente, e davvero non a caso, quando vidi lo spettacolo di Emma Dante «Vita mia». Parlo di un assolo di Yannis Papaioannou, uno dei grandi virtuosi greci di bouzouki. Non ha titolo, si chiama giusto «Solo Papaioannou»: all’inizio lentissimo, le note incerte e smarrite; e poi sempre più rapido, finché diventa, nello stesso tempo, un alto volo che si perde lontano, libero e forte come il respiro dell’anima, e la fuga illusoria verso un improbabile mondo «diverso».
Proprio ciò che accade in «NO43 Filth». Fra quei corpi che s’agitano nel fango ci sono toccamenti, carezze, abbracci, ricorrenti strategie sessuali più o meno spinte, masturbazioni furiose. Ma sempre, inevitabilmente, tutti quei movimenti e quei gesti, rabbiosi o dolcissimi che siano, finiscono a porsi come un ordito assolutamente ineffettuale, quasi il sogno disperato del possibile dispiegarsi di un progetto di vita qualsiasi. E il simbolo di tanta ineffettualità sta da un lato nell’acqua che i performer in campo si gettano vicendevolmente addosso con i secchi o una pompa (quando ricadono a terra, puliti ma bagnati, diventano autentiche calamite del fango) e dall’altro, sul piano di un irresistibile straniamento comico, nel togliersi scambievolmente, lordi come sono, un capello dalla spalla o una pagliuzza dai capelli.

Un altro momento di «NO43 Filth»

Un altro momento di «NO43 Filth»

Risuonano più volte, a ribadire un simile ossimoro (e risaltano perché sono fra le pochissime che qui si sentono) le parole: «alleluia» e «funziona», per giunta seguite dall’affermazione: «Questo mondo era solo una prova che è stata presa sul serio». Di fatto quelle catalessi, quel continuo cadere a faccia in giù, quello scavare con la testa nel fango, come talpe, nel tentativo di aprirsi una via verso la salvezza – tutto ciò apparenta i personaggi in azione a veri e propri zombi.
Perfettamente adeguati gl’interpreti: Marika Vaarik, Eva Koldits, Helena Pruuli, Rea Lest, Rasmus Kaljujärv, Ragnar Uustal, Gert Raudsep, Simeoni Sundja, Jörgen Liik e Reimo Sagor. Ma quando, al termine, sfilano l’uno dietro l’altro, non richiamano soltanto gli elefanti che s’avviano verso il luogo misterioso in cui moriranno. Sono l’illustrazione visiva dell’assunto programmatico della Semper e di Tiit Ojasoo, il quale l’affianca qui nella regia.
La loro compagnia si chiama Theatre NO99. E spiega Ene-Liis: «Tutti i nostri spettacoli sono numerati, innestando una sorta di conto alla rovescia da NO99 verso lo zero. Quando arriveremo allo zero, il nostro teatro si dissolverà. Avanzare verso lo zero porta con sé un volontario e convinto seppuku (il suicidio rituale dei samurai, n.d.r.), un inconfutabile movimento verso la fine. Significa che invece di celebrarci da soli, a un certo punto ci cancelliamo – questo è molto diverso dalle premesse di una cultura del consumo».
Già. Questi «samurai» di Tallinn ci hanno portato una salutare e radicale lezione contro ogni vanagloria e ogni aleatoria certezza, le nostre personali e quelle di tanto teatro e di tanti teatranti di oggi.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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