Prometeo? Adesso è un oppositore dei colonnelli greci

Luca Lazzareschi in un momento di «Prometeo», in scena ancora oggi nel Teatro Grande di Pompei

Luca Lazzareschi in un momento di «Prometeo», in scena ancora oggi nel Teatro Grande di Pompei

POMPEI – Propongo subito qualche nota introduttiva circa l’allestimento del «Prometeo incatenato» di Eschilo che col titolo «Prometeo» lo Stabile di Napoli e il Napoli Teatro Festival Italia hanno presentato nel Teatro Grande di Pompei, nell’ambito della rassegna «Pompeii Theatrum Mundi», per l’adattamento e la regia di Massimo Luconi.
Il nucleo tematico della tragedia di Eschilo – che racconta, come sappiamo, l’episodio del Titano incatenato da Zeus a una rupe per avergli rubato il fuoco donandolo agli uomini – consiste nell’irriducibile opposizione che Prometeo più volte dichiara (prima alle Oceanine, poi a Oceano e in ultimo ad Ermes) nei confronti dell’ordine tirannico instaurato dal nuovo re degli dei: un’opposizione lucida che gli consentirà di subire con piena consapevolezza e dignità la punizione finale di Zeus, lo sprofondare nel Tartaro della rupe che lo tiene prigioniero.
Non a caso, del resto, questa tragedia piacque molto ai romantici e ispirò, fra gli altri, Goethe, Wieland e Shelley. Il quale ultimo, nella prefazione al suo dramma lirico «Prometeo liberato», giunse a definire quel Titano come «il tipo della più alta perfezione morale e intellettuale». E ancora non a caso Marx ed Engels ammirarono e sottolinearono l’aspetto eversivo del mito in questione. Non potrebbero essere più espliciti, al riguardo, l’affermazione che già all’inizio pronuncia Prometeo («Ho voluto, ho voluto il mio peccato: / e non lo smentirò. Per dare aiuto / a chi moriva ebbi la mia pena») e il disprezzo beffardo con cui, alla fine, respinge Ermes, il messaggero venuto a ingiungergli di svelare l’oscura minaccia che incombe su Zeus («Parole gravi, dense di pensiero, / le tue: quelle d’un servo degli dei»).
Ma molto tempo è passato dal Romanticismo, e moltissimo, sul piano ideologico, ne è passato da Marx e da Engels. Oggi, in un’epoca post-ideologica, l’impegno morale non si traduce in un rapporto dialettico fra l’individuo e il mondo, e men che meno fra l’individuo e la società: rimane, al contrario, confinato in una sfera del tutto intellettuale e privata, e per giunta fatto segno di sospetti, se non di accuse dichiarate, che tirano in ballo la stravaganza, l’esibizionismo, il «radical-chic» e altre consimili amenità.

Massimo Luconi

Massimo Luconi

Eppure, Luconi, nelle sue note di regia, dice che la vicenda di Prometeo fa «pensare alla Grecia dei colonnelli o a personaggi eroici della resistenza come Panagulis». E a parte l’automatismo infantile di un tale accostamento, io, dopo oltre cinquant’anni di attività professionale, sto ancora a chiedermi quando e se mai i teatranti, spalleggiati dai loro corifei travestiti da critici, la smetteranno coi tentativi (ormai stucchevolissimi, e completamente inutili se compiuti per convincere qualcuno ad andare a teatro) di spacciare per attuale tutto quello che portano in scena.
Che c’entra la tragedia greca con quel colpo di stato che affondava le radici negli accordi di Varkiza, il primo esempio di compromesso storico? Che c’entra il mito con la spartizione dell’Europa fra Stalin e Churchill?
Non credo che Luconi sia stato in Grecia durante la dittatura dei colonnelli. Io ci sono stato, e non a fare il turista. Di modo che posso informare Luconi che, guarda un po’, di due cose diffidava l’ala più attrezzata (culturalmente e politicamente) del fronte di opposizione al regime dei colonnelli, quella che contò il maggior numero di propri martiri: del mito (e quindi anche della tragedia greca in quanto reperto immobile) e di personaggi come Panagulis.
Faccio a Luconi il nome di Michalis Lilis, un editore e giornalista di Atene morto in esilio dieci minuti prima di arrivare a Patrasso, sul traghetto che lo riportava nella Grecia finalmente liberata. Nella sua casa, una casa bianca di fronte al Partenone che oggi non esiste più, s’era tenuta di notte una riunione, appunto, dei più importanti oppositori dei colonnelli, in rappresentanza di tutti i settori decisivi della società. E dei due personaggi citati da Luconi nelle sue note, c’era Ritsos ma non c’era Panagulis.
D’altronde, sempre in merito alla problematicità in cui per forza s’inscrive oggi il mito di Prometeo, Luconi poteva almeno ricordarsi – visto che ha adottato il titolo di uno dei suoi testi, appunto «Prometeo» – di ciò che dice in una poesia un autore contemporaneo del calibro di Heiner Müller: «Forse Prometeo avrebbe dovuto aspettare / la nuova umanità che Zeus aveva in mente / o già sul tecnigrafo. / Il crimine è l’impazienza. Stalin sapeva / che la premessa per l’uomo nuovo era l’annientamento / del vecchio. / Lenin aveva ragione quando diceva a Trotzki: / ci siamo meritati la forca».
Chiusa (ma solo fino a un certo punto) la parentesi, vengo adesso allo spettacolo.

Luca Ronconi

Luca Ronconi

Aggrappato risolutamente a quanto di Prometeo gli sembra di poter e dover trasferire pari pari nell’attualità (ovvero, sempre per citare le note di regia, alla «sua dolorosa e nobile immagine di ribelle, di uomo in rivolta»), Luconi apre e chiude lo spettacolo con gli attori che (salvo, naturalmente, quello che interpreta il Titano) indossano cappottoni sformati e recano valigie consunte. All’inizio, prima di calarsi nei panni dei rispettivi personaggi, c’informano dell’antefatto e alla fine, dopo essere usciti da quei panni, riepilogano le quattro leggende che riguardano Prometeo. E dunque (migranti, profughi o, per l’appunto, esuli che siano) rappresentano in tutta evidenza gli emarginati e gli oppressi di oggi che attendono un nuovo Prometeo che ancora gli regali il fuoco (o, se non altro, la speranza del fuoco).
Troppo facile, e – ripeto – troppo semplicistico. E per quanto concerne la prova degl’interpreti, mi limito ad osservare – dopo aver annotato gli abbondantissimi tagli apportati al testo di Eschilo (spariscono, per esempio, i personaggi del Potere, della Forza e di Efesto) – che Luca Lazzareschi, a parte la perizia tecnica, dona disciplinatamente a Prometeo i toni enfatici, proprio da leader o da guru, che gli detta l’impostazione registica. E degli altri la migliore mi sembra, per la verità umana ed emotiva che esprime, Alessandra D’Elia nel ruolo di Io, mentre più deboli – accanto ai corretti Monica Demuru (il coro, anche in versione canora) e Vittorio Cataldi (quel fisarmonicista in scena che ormai pare sia diventato imprescindibile) – risultano Gigi Savoia (Ermes) e Tonino Taiuti (Oceano).
A proposito di questi ultimi due, poi, apro un’altra parentesi. Giusto quanto ho già avuto modo di scrivere, le compagnie stabili (compresa, per l’appunto, quella dello Stabile napoletano di cui fa parte Taiuti) possono funzionare bene solo se al loro interno si applica con rigore (come ho constatato di persona che avviene in Austria e in Germania, soprattutto alla Schauspielhaus di Colonia) il criterio della rotazione: poiché, evidentemente, non è detto, mettiamo, che un attore adatto a interpretare il ruolo di Felice Sciosciammocca sia altrettando adatto a fare la parte di Amleto.
Infine, dal momento che Luconi ha lavorato con Luca Ronconi e che si è stabilito un paragone fra la rassegna «Pompeii Theatrum Mundi» varata dallo Stabile di Napoli e i cicli degli spettacoli classici varati dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico nel Teatro Greco di Siracusa, mi viene spontaneo il ricordo dell’allestimento del «Prometeo incatenato» che giusto Ronconi presentò a Siracusa nel 2002.
La scenografa Margherita Palli incastrava fre le pietre antiche del Teatro Greco una gigantesca statua, prostrata col capo chino. Prometeo agiva, per tutta la rappresentazione, su una piattaforma che sporgeva dalla testa di quella statua. E alla testa di quella statua erano attaccate le sue catene. E sulla testa di quella statua arrivavano, immancabilmente, i personaggi – a cominciare da Oceano ed Ermes – che pretendevano di convincere il Titano a riconoscere l’autorità di Zeus. Insomma, Ronconi ci diceva che oggi è solo in noi (nella nostra testa, appunto) l’idea (o l’utopia) di poter determinare la libertà. Ed è proprio quello che ho detto anch’io.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Prometeo? Adesso è un oppositore dei colonnelli greci

  1. Massimo Luconi scrive:

    Alcuni anni fa, in un convegno sulla critica web, con alcuni giovani critici e anche qualche nome storico delle critica italiana, fu evidenziato il pericolo spesso ricorrente di utizzare l’ampio spazio a disposizione, diversamente dalla carta stampata, per disquisire intorno ai gusti estetici e alla storia personale del critico più che approfondire lo spettacolo preso in analisi.
    Dispiace constatare che un critico di esperienza e di grande valore come Fiore sia incorso in pieno in questo vezzo, raccontando soprattutto la propria, nobilissima, storia, senza entrare in merito alle caratteristiche dello spettacolo, anzi fraintendendo completamente, per poca attenzione o per un refuso nel comunicato stampa, il mio assunto di partenza che era l’esatto contrario. Affermo nelle mie note di regia che “guardiamo a questa opera straordinaria dell’antichità con il nostro sguardo critico, spogliandola dall’enfasi ottocentesca, ma assumendone in pieno il fascino primordiale” e poi che “sarebbe poco interessante lavorare su una attualizzazione realistica della figura di Prometeo”. Inoltre il testo andato in scena, a parte il breve prologo e l’epilogo, e a parte qualche inevitabile taglio, è assolutamente fedele alla scrittura di Eschilo nella bella traduzione di Susanetti. Quindi questa presunta attualizzazione e identificazione in Panagulis, da dove viene fuori?
    Ripeto, sono dispiaciuto soprattutto che un critico attento e competente sia incorso in una aggressiva e sproporzionata (a mio parere) invettiva, che ha coinvolto anche la mia persona e il mio, a suo parere, superficiale rapporto con la Grecia, senza sapere che il mio legame con la Grecia è molto profondo. Ma alla fine a chi importa delle nostre storie personali? Credo che si sia persa un’occasione per parlare di teatro.
    Massimo Luconi

  2. Enrico Fiore scrive:

    Credo che, se io ho perso un’occasione per parlare di teatro, Luconi ne abbia persa un’altra per farlo, il teatro.
    Io, se talvolta lascio spazio nel corpo delle recensioni a episodi della mia storia personale, lo faccio sempre in rapporto al contenuto dello spettacolo che sto analizzando e alla sua collocazione nell’ambito della Storia, quella con l’iniziale maiuscola, che riguarda l’attualità sociale, culturale e politica. E’ ciò che fa dalle pagine del maggiore quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, anche il mio amico (e collega, ai tempi di “Paese Sera”) Franco Cordelli.
    Nella circostanza, sono stato spinto a parlare della mia militanza comunista al fianco dei più determinati esponenti del fronte di opposizione al regime dei colonnelli greci dal fatto che Luconi, nelle sue note di regia, ha scritto che la vicenda di Prometeo fa, per l’appunto, “pensare alla Grecia dei colonnelli o a personaggi eroici della resistenza come Panagulis”. E ne ho parlato per spiegare a Luconi che, mentre lui conosce solo Panagulis (probabilmente noto a lui e ad altri come lui anche o soprattutto per la relazione che ebbe con Oriana Fallaci), ben più decisivi, sotto il profilo della “trasparenza” ideologica, furono i combattenti come quelli che ho citato, Ritsos e Michalis Lilis. La mia “invettiva” è nata da questo. Stia zitto, Luconi, non parli di cose che non sa e che sono molto, infinitamente più grandi di lui e del teatro. Ci sono stati i morti, fra i greci che si battevano contro i colonnelli. Stia zitto, Luconi. Abbia rispetto, se ne è capace.
    Invece, guarda un po’, adesso il Luconi chiede a me da dove venga fuori “questa presunta attualizzazione e identificazione in Panagulis”. Anzi, nel merito lancia due accuse: una a me (di “poca attenzione”) e una all’ufficio stampa del Teatro Stabile di Napoli, parlando – a proposito della frase citata – di un “refuso” nel suo comunicato (inviato via e-mail, preciso io, alle 15,14 del 26 giugno scorso).
    Ora, a prescindere dalla scarsa proprietà di linguaggio messa in campo da Luconi (un refuso può riguardare una parola, non un’intera frase) e dalle virgole che lui piazza a casaccio e che gli ho aggiustato io, posso testimoniare con piena coscienza circa la professionalità dei colleghi dell’ufficio stampa del Teatro Stabile di Napoli. Quell’affermazione (ripeto, che la vicenda di Prometeo fa “pensare alla Grecia dei colonnelli o a personaggi eroici della resistenza come Panagulis”) è tutta di Luconi, al quale, adesso, fa comodo – pur di arrampicarsi sugli specchi di fronte alla mia recensione negativa del suo spettacolo – dichiarare che non ne ha la paternità.
    Per quanto riguarda, poi, l’accusa di non aver “approfondito” lo spettacolo, vorrei sapere da Luconi che cos’altro avrei dovuto dire. La mia era una recensione di ben 153 (centocinquantatré) righe di sessanta battute l’una, in cui ho sviluppato un’analisi del testo di Eschilo, ho accennato alle interpretazioni storiche che ne sono state date (da Goethe e Shelley a Marx ed Engels e a Müller) e, infine, ho descritto in che modo Luconi, con il suo prologo e il suo finale, abbia configurato proprio la banale “attualizzazione” che ora nega. Con l’aggiunta di un paragone con l’allestimento del “Prometeo incatenato” firmato da Ronconi.
    Mi dica, Luconi, se ne legge in giro molte, di recensioni del genere. Avrei forse dovuto aggiungere che taluni degl’interpreti parlavano con uno smaccato accento napoletano? Lasciamo perdere. E per quanto riguarda il “molto profondo” legame con la Grecia che Luconi asserisce di avere, consiste, stando a ciò che mi ha detto per telefono, nel fatto che… ha un nonno greco.
    Ma non stavamo parlando (e insisto, su sua sollecitazione) della Grecia dei colonnelli e di Panagulis? Ancora una volta, lasciamo perdere. Affido la sintesi del discorso al sarcastico motto romanesco: “E nun ce vonno sta’”. E mi permetto di ricordare a Luconi, con l’augurio che la faccia sua, l’aurea preghiera di Tommaso Moro: “Dammi, o Signore, il senso del ridicolo”.
    Enrico Fiore

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