Nel cimitero di Spentaluce, dopo la risata del Vesuvio

 

Enzo Moscato in un momento di «Raccogliere & Bruciare» (le foto che illustrano l'articolo sono di Salvatore Pastore)

Enzo Moscato in un momento di «Raccogliere & Bruciare»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Salvatore Pastore)

NAPOLI – Sapevamo da molti anni che, prima o poi, Enzo Moscato avrebbe portato in scena una «rivisitazione» dell’«Antologia di Spoon River»: lo sapevamo, per l’esattezza, da quando, alla fine del 1995, presentò nelle scuderie di Palazzo Reale quel «Co’Stell’Azioni» che, più di qualsiasi altro suo spettacolo, costituiva, come già ho avuto modo di scrivere, un’eclatante metafora o, meglio, un indiscutibile paradigma di Napoli: ovvero di una terra di frontiera su cui s’incontrano e si scontrano, in un groviglio pressoché inestricabile, il calore di un’illustre tradizione, ancora sentita ma ormai impraticabile in termini di quotidianità, e il freddo luccichio delle ordinarie mitologie consumistiche.
Infatti, è proprio in «Co’Stell’Azioni» che si trovano tutte le premesse e le ragioni di «Raccogliere & Bruciare» (sottotitolo: «Ingresso a Spentaluce»), il nuovo testo di Moscato dato alla Galleria Toledo nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia e ispirato, per l’appunto, al capolavoro di Edgar Lee Masters.

Benedetto Casillo

Benedetto Casillo

In «Co’Stell’Azioni», come qualcuno ricorderà, s’immaginava che, nella magica notte di fine d’anno, i Morti venissero tra i Vivi: «[…] per farvi» – gli spiegavano – «sapitori ‘e sta ferita, / per chiedervene scusa, / scusa e perdono di una differenza, / dello stare nel diverso di un altrove». E «ferita» è anche il termine che a proposito della sua anima adopera Harmon Whitney nell’«Antologia di Spoon River». Ma giova considerare che, accanto alle citazioni da Lee Masters, in «Co’Stell’Azioni» c’erano quelle da Cocteau. E se, per quanto riguarda quest’ultimo, erano dichiarati, da parte di Moscato, i rimandi a «Richiamo all’ordine», al ruolo di archeologo delle regioni oscure dell’anima che lo stesso Cocteau si attribuì e al tema orfico dei rapporti fra il poeta e l’aldilà (vedi, poniamo, il personaggio dell’Angelo d’Accatto), per mio conto penso all’analisi di Kihm, il quale disse, di molti personaggi di Cocteau, che essi non vivono la propria vita, ma la recitano, confondendo continuamente la finzione con la realtà.
Dunque, ecco il confine su cui si collocava «Co’Stell’Azioni»: i Morti stavano per l’Inespresso, per il Buio, per la Velocità, per la Distanza, per il Disagio (in una parola, per la Poesia) e i Vivi stavano per il Significato, per la Luce, per la Lentezza, per la Promiscuità, per l’Acquiescenza (in una parola, per il Conformismo). Sicché ancora una volta, e per mezzo di una lancinante scrittura «(de)lirica», eravamo messi di fronte all’eterno dualismo dell’anima neapolitana. Ed era per questo, si capisce, che «Co’Stell’Azioni» risultava pensato e organizzato per opposti: in maniera che da un lato avevamo l’ordine, la ragione, la parola, il senso e, dall’altro, il caos, la follia, l’afasia, l’insensatezza (e/o il sogno). Infatti, molte e «anarchiche» sono le membra del corpo (corpo smisurato e rachitico insieme, rabelaisiano e leopardiano) che si chiama Napoli.
In ciò, ripeto, stanno le premesse e le ragioni di «Raccogliere & Bruciare». Rispetto a Spoon River qui siamo nel luogo che così presenta (è la prima battuta del testo, e quindi appare, non a caso, in posizione fortemente icastica) il personaggio Alma Jances: «Ecco a te attorno l’immane cimitero chiamato Spentaluce! Ora posto dove un tempo è stata Napoli – la Greca! Mo’ ridotta tutta in cenere e lapilli, dall’ennesima risata distruttiva del Vulcano!».

Enza Di Blasio

Enza Di Blasio

Subito, allora, Moscato rivela e sottolinea quali sono lo scopo e il tema di questo suo nuovo excursus drammaturgico: si tratta di una denuncia veemente e sanguinosa contro il velo di oblio e di silenzio steso sugli anni – fra la seconda metà dei Settanta e la prima degli Ottanta – in cui davvero Napoli fu nobile e culturalmente decisiva, e nella letteratura e nel teatro e nella musica e nell’arte. Di qui il titolo. Moscato assume contemporaneamente un ruolo attivo («Raccogliere») col rievocare le tappe significative del proprio cammino di autore e un ruolo passivo («Bruciare») col constatare, per l’appunto, la distruzione di quanto avevano prodotto gli anni citati ad opera della lava eruttata con disprezzo beota (l’«ennesima risata») dal Vesuvio della mediocrità presente.
Si comprende, dunque, perché qui – al pari dei Morti e dei Vivi che comparivano in «Co’Stell’Azioni» – i personaggi messi in campo acquistino una determinante connotazione simbolica: al posto dei vari Kinsey Keene, Benjamin Pantier, Emily Sparks e Jones il suonatore di Lee Masters troviamo, accanto alla citata Alma Jances, una Mystica, una Pandora e soprattutto, nel ruolo del «Cantastorie»!, uno Stilitano. Costui, lo sappiamo, è – nel «Diario del ladro» – il mentore (monco) di Genet tra i furti e le prostituzioni di Barcellona, diventando poi ricco col traffico d’oppio. E si poteva lanciare una più feroce (e impagabilmente sarcastica) frecciata contro gl’imbonitori in servizio permanente effettivo che oggi infestano, campioni dell’affabulazione ruffiana, i giornali e le televisioni d’ogni ordine e grado?

Gino Curcione

Gino Curcione

È proprio grazie a Stilitano, d’altronde, che comprendiamo pure come, rispetto all’«Antologia di Spoon River», in «Raccogliere & Bruciare» s’impongano, di conseguenza, un abbassamento, uno svilimento e un rattrappimento del tono, fra il dolente e l’ironico. E valga, in proposito, l’esempio di «Tristico, ‘o mariuolo», che sostituisce l’Hod Putt di Lee Masters: parla di Bill Piersol come di un «astuto robivecchi levantino» che si arricchì «trafficando coi Giudei» (invece che «con gli Indiani») e racconta di aver rapinato «un accattone dalle parti di vico Luogo Scuro alla Dogana» (invece che «un viaggiatore al boschetto di Proctor»).
Fanno il paio, simili sberleffi, con la ripresa da «Signurì, signurì…» – il testo che, presentato nel 1982 a Venezia, nell’ambito del «Carnevale del Teatro» organizzato dalla Biennale, rivelò Moscato sul piano nazionale – dello sfogo: «No! / Nun voglio ‘int’a chesta valiggia / ‘e dische rutte / aspettà l’ora d’ ‘a morte…». Ed è opportuno ricordare, d’altronde, l’ultima scena di quel testo: appena uno dei personaggi (non a caso il Vecchio) ripete la fatidica battuta «Ha da passa’ ‘a nuttata», subito un altro (di nuovo non a caso il Cameriere) lo fredda con un colpo di rivoltella.
Mi sembra, in definitiva, che «Raccogliere & Bruciare» inveri in maniera lancinante l’osservazione capitale che a proposito dell’«Antologia di Spoon River» fece Cesare Pavese: «Si direbbe che per Lee Masters la morte – la fine del tempo – è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre nell’anima».
È questo che fa Moscato prelevando frammenti dalla sua produzione precedente e imprigionandoli per sempre nel momento irripetibile dell’accadere teatrale. E non occorre sottolineare quanto tale operazione si giovi del mélange di lingue (l’inglese del testo originale, il greco antico, un italiano andante, un napoletano gaglioffo, il francese, il portoghese) adottato nella circostanza. Si tratta della «maschera» assolutamente necessaria per passare dalla pagina scritta, in sé conclusa, al perenne divenire di una reinvenzione della vita.
Ora, venendo all’allestimento (una coproduzione Compagnia Teatrale Enzo Moscato-Casa del Contemporaneo, e garantito dalla regia e dall’impianto scenografico dello stesso Moscato), dico con piena convinzione che rende tutto quanto sopra con una precisione incomparabile – e chirurgica addirittura – che, però, fugge spesso nel regno delle invenzioni, quelle che a loro volta risultano in pari tempo «ideologicamente» pregnanti e poetiche. E tra queste centrale e decisiva si rivela la citazione da «’O sapunariello» di Viviani.

Rita Montes

Rita Montes

Sì, «Eramo ‘a ciente e sidece pezziente». Ma qui – rispetto alla volgarizzazione e alla corruzione di quel brano da parte dei troppi cantantucoli e attorucoli in circolazione – siamo rimandati al fatto che il 116, già ricorrente in un antico canto del Cilento dedicato alla perenne malasorte di altrettanti mendicanti, è un numero esoterico che si riferisce, per l’appunto, alle anime dei morti, ossia ai «senza nome». E torniamo, dunque, all’indissolubile intreccio fra la quotidianità, quella più immediata e banalmente riconoscibile, e una dimensione «altra».
Lo stesso incontro/scontro spasima, del resto, anche nelle quattro canzoni immesse da Moscato nello spettacolo e splendidamente musicate ed eseguite da Enza Di Blasio. Basta considerarne la prima, ispirata al canto di Didone dell’«Eneide»: al rimpianto della predetta «età dell’oro» culturale di Napoli («’A quantu tiempo, anima mia, sì morta! / ‘O cuorpo tuoio è ‘nu sciore / ‘O cuorpo tuoio è ‘nu sciore / Arò i petali so’ fiati, fatt’ ‘e cera!») fa riscontro la risentita polemica contro l’aridità dell’oggi («[…] tu / creatura mite / che, lenta, abbassi palpebre spiaciute / se, a fa’ giochi int’ ‘o curtile, / mai nisciuno, più gentile, / mmiez’a nuie rivolge invito!»).
Di qui pure l’estrema eterogeneità che distingue la colonna sonora curata da Teresa Di Monaco: si va, poniamo, da «Summertime» eseguita da Sidney Bechet a «1940» di Francesco De Gregori, da «Where have all the flowers gone» cantata da Joan Baez a «Padrone d’ ‘o mare» cantata da Franco Ricci e a «Blowing in the wind» canta da Marlene Dietrich. E, per suo conto, l’attenta regia di Enzo Moscato tocca l’acme in due momenti. I personaggi, ombre larvali, si aggirano o siedono, fra le croci e le teste/teschio di Mimmo Paladino, sempre isolati. Tranne che, per l’appunto, in due occasioni che li vedono riuniti in coro: quando ascoltano immobili e muti la grande Concetta Barra che canta «Il cavaliere e la morte» di Anonimo nella rielaborazione di Roberto De Simone (l’illustre tradizione di cui dicevo all’inizio) e quando intonano «Giovinezza» ciascuno con il foglietto del testo in mano (la sterile omologazione attuale).
Per giunta, «Blowing in the wind» si mescola con una delle più virulente invettive che mai siano partite da un palcoscenico nostrano: «Stand up! Stand up! In piedi! In piedi! / Date battaglia ai bellimbusti e ai toraci fiacchi e vuoti! / Ai simulatori e alle comparse delle cronache mondane! / Ai bifolchi che sposano le figlie dei magnati più potenti! / Ai parassiti delle grandi e pseudo – pirotecniche – evoluzioni! / Ai rumorosi cavalieri delle bieche cause perse e agli eredi invitti di antiche e reiterate ruberie! / In piedi! In piedi, ho detto! / Prendete in mano questa lercia città vostra, questo vostro stato immerso fino al collo nella mota!».
Intorno a Moscato, che (vestito allusivamente a mo’ di gondoliere veneziano, con maglietta a righe orizzontali e paglietta) interpreta i ruoli di Stilitano, di Tristico ‘o mariuolo e dell’Uxoricida, si muovono con pari efficacia più di venti interpreti, accarezzati o frustati dalle sapienti luci di Cesare Accetta. Spicca un formidabile Benedetto Casillo, che dona ai personaggi del Padre di Minerva, del Cacciatore, di Espiador e del Visionario il rigore e lo spessore distillati da ben cinquant’anni di versatile carriera. E accanto a lui metto subito Gino Curcione (Zeza Furmya), Rita Montes (Black Widov) e, via via, Cristina Donadio (Pandora), Massimo Andrei (Savonarolli), Vincenza Modica (Mystica) e Imma Villa (Lorcana).
Finisce con tutti loro che avanzano verso la ribalta cantando, sempre in coro, la notissima «Vivere» portata al successo da Carlo Buti. Ed è, insieme, una nota scherzosa e una frecciata velenosa. Io – faccio anch’io un po’ di poesia!… – ho pensato alle: smunte «pennette» / che al posto della vita / han messo le gazzette. «Vivete, vivete, coglioni!» gridò una lontana sera al Parco Virgiliano, piegato in due dal dolore e dalla rabbia, il nostro immenso maestro e compagno di strada Leo de Berardinis.
Basta, adesso. Credo che «Raccogliere & Bruciare» sia il più importante spettacolo su Napoli che abbia visto da molti anni a questa parte. E se esiste un iddio del teatro, ce lo conservi ancora a lungo, Enzo Moscato. Perché dice la verità. E sta sul palcoscenico e contemporaneamente sta altrove, perché in ascolto, giusto, della vita che passa.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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8 risposte a Nel cimitero di Spentaluce, dopo la risata del Vesuvio

  1. Delia Morea scrive:

    Grande disamina, straordinaria analisi. Chiamarla recensione sarebbe riduttivo, perché c’è tutta la poetica di Enzo Moscato e, se mi consenti, i miei, i nostri (di tutti quelli della mia generazione) anni lontani, quando le luci erano accese, appunto, e gli ideali e le ricostruzioni in atto. E se Dylan cantava “Blowing in the wind”, era perché il vento non le disperdeva, le risposte, ma le raccoglieva per portarle a noi che camminavamo su sentieri colmi di speranze o, almeno, lo credevamo. Chissà, forse nella mia mente, guardando lo spettacolo di Enzo l’altra sera, mi sono apparsi anche quei sentieri scomparsi, quei mondi altri che per fortuna abbiamo vissuto. E Moscato, come sempre grande vate, in questo straordinario spettacolo, dove la vita e la morte sono facce della stessa medaglia, tra l’altro, mi ha accompagnata in questo cammino lontano.
    Grazie per il bellissimo scritto.
    Delia Morea

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, cara Delia, per queste tue parole: esprimono l’anima di quanti ancora credono che vivere non sia soltanto sopravvivere o, come diceva Oscar Wilde, semplicemente esistere.
    Enrico Fiore

  3. Raffaele Mastroianni scrive:

    Magnifiche argomentazioni per uno spettacolo di enorme qualità.
    E’ assurdo che un osceno e squalificato sistema di potere privi la stampa cittadina di un simile qualificato e storicizzato livello di recensione e di contributo letterario.
    Non credo che potremo rivedere facilmente questo lavoro, che per numero di attori stenterà molto a trovare spazi e copertura economica.
    Mi permetto, poi, una riflessione sul Napoli Teatro Festival Italia.
    A prescindere dal programma e da una certa chiusura nell’ambito cittadino, trovo scellerata e dannosa la politica dei prezzi dei biglietti.
    Comprare un biglietto a tariffa intera (8 euro) stupisce gli addetti al botteghino, che increduli ti chiedono come mai non hai riduzioni. Tra due biglietti al prezzo di uno, tessere e categorie varie, si paga da 2,5 euro a 4 e a niente.
    Lo trovo fortemente diseducativo e deleterio per chi fa teatro, e soprattutto per chi gestisce una sala.
    Anche il Mercadante ha venduto biglietti a pochi euro pur di far numero per quanto riguarda gli spettatori.
    Quest’inverno un piccolo teatro (piccolo di dimensioni) se dovesse chiedere 12/15 euro a biglietto sarà percepito come esoso e fuori mercato. E peraltro quel che non si paga non si apprezza.
    Raffaele Mastroianni

  4. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Mastroianni,
    grazie per i complimenti. Circa la Sua analisi della situazione teatrale a Napoli, che condivido pienamente, avremo modo di riparlarne. Per cominciare, quando sarà finito il Napoli Teatro Festival Italia.
    Voglia intanto gradire i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

  5. Rita Montes scrive:

    Grazie, per la straordinaria analisi dello spettacolo e per la considerazione verso gli attori, visti oggi come marginali alla riuscita di uno spettacolo. La tua cultura è un respiro in un mondo asfittico e impreparato.
    Grazie, Rita

  6. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a tutti voi per avermi fatto vedere questo spettacolo.
    Enrico Fiore

  7. Eduardo Tartaglia scrive:

    Non sono riuscito a vedere lo spettacolo. Le parole chiare della recensione aumentano il mio rammarico…
    Complimenti.
    A tutti.
    Eduardo Tartaglia

  8. Enrico Fiore scrive:

    Caro Eduardo,
    speriamo che “Raccogliere & Bruciare” possa essere ripreso, in modo che tu e molti altri con te riusciate a vederlo. Ne vale davvero la pena.
    Ti abbraccio.
    Enrico Fiore

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