Madre, figlia e nipote, ebree in fuga dall’ebraismo

Da sinistra, Elena Callegari, Maria Roveran e Francesca Cutolo in un momento di «Lingua madre Mameloschn», in scena al Duse di Genova

Da sinistra, Elena Callegari, Maria Roveran e Francesca Cutolo in «Lingua madre Mameloschn», in scena al Duse

GENOVA – «Nessuno, solo una madre, è capace di ucciderti in ogni momento con una mezza frase». È l’aforisma di Maxi Obexer posto in epigrafe a «Lingua madre Mameloschn», il testo di Sasha Marianna Salzmann che il Teatro Stabile di Genova presenta al Duse, per la regia di Paola Rota, nell’ambito della XXII edizione della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea. Ma qui la «madre» va intesa in due sensi: come entità reale (la famosa, o meglio famigerata, mamma ebrea, possessiva fino alla maniacalità) e come metafora dell’opprimente paradigma ideologico e normativo costituito dalla tradizione ebraica e, in particolare, dai suoi ferrei dogmi religiosi.
In effetti, poi, è una metafora l’intero testo. Sono in scena tre donne ebree trapiantate in Germania: un’anziana madre (Lin), sua figlia (Clara) e sua nipote (Rahel). Però si tratta solo di funzioni. L’unico personaggio vero è per l’appunto la «Mameloschn» del titolo, la parola che, significando «la lingua madre», designa l’yiddish in quanto lingua di quella diaspora che ha fondato e forgiato l’anima e la cultura dell’ebreo moderno, sospeso fra la tradizione di cui sopra e l’anelito al nuovo indotto dalle diverse patrie che l’hanno accolto.
Non a caso, allora, il copione della Salzmann è tramato dall’inizio alla fine non solo di termini yiddish, ma, addirittura, di tutta una serie di esempi del «witz», la tipica storiella ebraica che giusto in yiddish viene raccontata.

Sasha Marianna Salzmann

Sasha Marianna Salzmann

Metafore del tentativo di fuga da una simile prigione sono, dunque, il trasferirsi di Lin nella Repubblica Democratica Tedesca, con le conseguenti adesione al comunismo e iscrizione alla SED, il Partito di Unità Socialista della Germania; la frenesia con cui Clara stravolge l’appartamento «fino» (dice la didascalia, n.d.r.) «a non riconoscerlo più»; e,  last but not least, il fatto che Rahel si trasferisce a New York. E una metafora delle metafore, ovvero una metafora spinta sino a una delirante iperbole, mette in campo Clara quando, leggendo il giornale, comunica a Lin: «In Israele c’è stato un altro attentato suicida» e aggiunge: «Suppongono che non sia stato un arabo. Scrivono che è stato un ebreo».
Clara conclude la scena chiedendo: «Perché l’hanno dovuto scrivere?». Ma, s’intende, è la classica domanda retorica: il fatto che a compiere l’attentato suicida in Israele sia stato un ebreo allude, simbolicamente, proprio alla ricerca spasmodica di cui stiamo parlando, quella di un’autentica identità umana individuale che si manifesti e attesti al di là dell’essere, per l’appunto, ebreo.
Si capisce, quindi, perché l’interminabile e sempre più aspro colloquio fra le tre donne mescoli continuamente il passato e il presente: è necessario farli interagire, nella speranza, sia pur labile, che dal loro confronto possa scaturire, se non altro, anche solo un’ipotesi di futuro. E si rivela un testo forte, duro e persino crudele, questo di Sasha Marianna Salzmann: forse perché in qualche misura autobiografico, visto che lei è nata nel 1985 a Volgograd e adesso vive tra Istanbul e Berlino, dove è autrice residente al Teatro Gor’kij.

Un altro momento dello spettacolo

Un altro momento dello spettacolo

Tuttavia, ci viene offerto un finale che, pur essendo altrettanto forte, nello stesso tempo risulta dolcissimo e commovente e confortante. Ancora simbolicamente, Lin muore («Si è addormentata», racconta Clara a Rahel) quando è Yom Kippur, il Giorno del Perdono. Ma prima di morire dice alla figlia: «Sono molto fiera del mio passato e credo sia importante, per le prossime generazioni, capire che la resistenza è il dovere di ognuno di noi». E Clara telefona a Rahel che lascerà ad altri il compito di recitare il Kaddish, la preghiera ebraica per i morti; lei, per Lin, intonerà canti operai.
Mi son tornate in mente – come mi tornarono in mente mentre, sedici anni fa, vedevo «Mame Mamele Mama Mame Mamma Mamà (Il crepuscolo delle Madri)» di Moni Ovadia, uno spettacolo assai simile a questo – le parole di Wolf Biermann: «Abbiamo tradito noi stessi, / ci siamo venduti e in tutto ingannati. / Ma fra tutti i miei sogni, quelli rossi / non sono morti e sepolti assieme ai nostri morti».
Non a caso, del resto, Paola Rota ci fa arrivare a un certo punto da una radio – tenue come un soffio ma indomabile come il respiro  – la musica di «Mir zenen do», il canto dei partigiani del ghetto di Varsavia: «Non dire mai che ho percorso l’ultimo cammino. / Anche se le nuvole nascondono l’orizzonte, / verrà ancora la nostra ora tanto attesa, / risuonerà ancora il nostro passo. / Noi siamo qui». E infatti, Lin muore, rivolgendo al pubblico un inchino, dopo che ha pronunciato le parole: «Sono orgogliosa e felice che la gente voglia ancora ascoltare la mia storia. Mi dà speranza per le prossime generazioni. Speranza per il mondo che viene dopo di me».
Molto bello, e molto giusto. Così come sono belli e giusti anche tutti gli altri segni disseminati nell’allestimento: da quel soggiorno-bunker ingombro di valigie, una vera e propria isola fra i muri nudi e i tiranti del retropalco, alle invenzioni che riassumono la personalità delle tre donne: l’enorme testa di Stalin accanto alla poltrona in cui di solito siede Lin, il balletto ironico che Clara rivolge alla madre canticchiando «L’Internazionale» e il dimenarsi svagato di Rahel con le cuffie in testa sull’onda di «Fuel» dei Metallica… E a straniare l’insieme, e nientemeno che lo spettacolo in sé, provvede un prologo a sipario chiuso che vede le interpreti impegnate a sceneggiare, per l’appunto, una delle storielle ebraiche citate.
Superfluo, s’intende, rilevare quanto siano a loro volta giuste quelle interpreti: Elena Callegari (Lin), Francesca Cutolo (Clara) e Maria Roveran (Rahel). E insomma (la scena è di Sandra Victoria Muller, i costumi sono di Ursula Patzak), parliamo di un bell’esempio di teatro tutto al femminile. Posso persino pensare che si ponga – certo senza proporselo, ma tale, di fatto, risultando – come un’anticipazione della prossima Biennale Teatro, quest’anno, per l’appunto, declinata interamente al femminile dal nuovo direttore Antonio Latella.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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