E Salomone si mette a cantare «A far l’amore comincia tu»

Roberto Latini in un momento de «Il Cantico dei Cantici» (le foto che illustrano l'articolo sono di Angelo Maggio)

Roberto Latini in un momento de «Il Cantico dei Cantici» (le foto che illustrano l’articolo sono di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – «Negra son io, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Cedar, ma bella come i padiglioni di Salomone». Così si presenta la «Diletta» del «Cantico dei Cantici» (1, 4). E subito dopo precisa, addirittura in termini di fisiognomonia delle razze: «Non badate che io sia bruna; perocché il sole mi fe’ cangiar di colore» (1, 5). Ma San Bernardo, uno dei maggiori esegeti del «Cantico» nell’ambito della cristianità, sostiene deciso che per la bellezza della Sposa bisogna intendere la virtù della Chiesa, la sua bontà interiore, lo stato di grazia di cui Dio l’ha dotata; e per la pelle nera bisogna intendere la sua sofferenza esteriore, i suoi sensi mortificati dalle fatiche e dai patimenti.
Infatti, monsignor Antonio Martini, autore della celebre traduzione secondo la Vulgata che ho utilizzato, afferma che quell’altrettanto celebre testo biblico, attribuito per l’appunto a Salomone, è «una specie di poema allegorico, un dialogo tra lo Sposo e la Sposa, inteso a rappresentare la mistica unione di Gesù Cristo colla sua Chiesa». E sono d’accordo, sulla necessità d’interpretare il «Cantico» in chiave allegorica, un po’ tutti i maggiori studiosi, e sul versante ebraico e sul fronte cristiano.
Il gran rabbi Akiba, per esempio, riteneva che «Il Cantico» fosse una celebrazione dell’amore di Dio per Israele, sicché non esitò ad affermare che «tutti i libri sono sacri, ma “Il Cantico dei Cantici” è sacrosanto». E dal canto suo, nel proprio trattato sull’«Educazione della Vergine», il vescovo di Milano Ambrogio paragonò la bellezza della Chiesa che predica il Vangelo alla Sulammita della quale nel «Cantico» si dice: «come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di nobili» (7, 2). Inoltre, quell’eccelso Padre della Chiesa riconosceva nel «Cantico» i diversi momenti del percorso che compie l’anima per raggiungere Dio («Su Isacco»). Mentre ancora San Bernardo vi scorgeva addirittura una prefigurazione della Vergine Maria, tanto che, nelle sue «Lodi alla Vergine Madre», accostò alcune immagini del «Cantico» alla scena dell’Annunciazione: «Mentre il re stava riposando nella sua dimora, il nardo della Vergine aveva mandato il suo profumo (1, 12) e il suo espandersi era salito al cospetto della gloria e aveva trovato grazia davanti agli occhi del Signore, mentre chi era presente esclamava: “Che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo, profumata di mirra, incenso e di ogni essenza aromatica?” (3, 6)».
C’è da aggiungere che nel «Cantico» trovò ispirazione persino la poesia spirituale di Giovanni della Croce. E questo senza contare che nelle Bibbie cristiane «Il Cantico dei Cantici» segue immediatamente «Proverbi» e «Qohelet», anch’essi attribuiti a Salomone e anch’essi, indiscutibilmente, libri sapienziali.
In pratica, l’unica voce fuori dal coro è quella di Teodoro di Mopsuestia, per il quale il «Cantico» è solo un insieme di inni d’amore che accompagnarono le nozze del re Salomone con una principessa egiziana. E proprio a Teodoro di Mopsuestia mi sembra di poter accostare Roberto Latini, autore, regista e protagonista della messinscena de «Il Cantico dei Cantici» che Fortebraccio Teatro ha presentato nell’ambito della XVIII edizione della rassegna «Primavera dei Teatri». Tanto a partire dalla nota con cui definisce il testo: «Pervaso di dolcezza e accudimento, di profumi e immaginazioni, è un inno alla bellezza, insieme timida e reclamante, un bolero tra ascolto e relazione, astrazioni e concretezza. Se lo si legge senza riferimenti religiosi e interpretativi, smettendo possibili altre chiavi di lettura, rinunciando a parallelismi, quasi inconsciamente, se lo si dice senza pretesa di cercare altri significati, può apparirci all’improvviso, col suo profumo, come in una dimensione onirica, non di sogno, ma di quel mondo, forse parallelo, forse precedente, dove i sogni e le parole ci scelgono e accompagnano».

Un'altra scena dello spettacolo

Un’altra scena dello spettacolo

Ora, Latini è padronissimo di pensarla come vuole, a parte i pleonasmi, le vaghezze e le ripetizioni con cui infiora il suo discorso. Ma non può superare i limiti consentiti dalla filologia, dalla logica e dal buongusto, né può, soprattutto, entrare in contraddizione con se stesso. E faccio, in proposito, soltanto tre esempi.
Il passo 5, 4 viene tradotto – rispettivamente nell’edizione mondadoriana della Bibbia curata da un teologo della statura di Vito Mancuso e da monsignor Martini, nell’edizione della Bibbia pubblicata da Garzanti – «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un brivido mi ha attraversato» e «Il mio diletto passò la sua mano per l’apertura dell’uscio, e in quel ch’ei lo toccava, le mie viscere si commossero», mentre Latini dice: «Il mio amato ha messo la mano nell’apertura e il mio ventre ha tremato a quel contatto». Il passo 7, 3 viene tradotto, sempre nelle edizioni della Bibbia citate, «Il tuo ventre è una collinetta di grano, circondato di gigli» e «Il tuo ventre è come un monte di frumento circondato dai gigli», mentre Latini dice: «La tua vulva è un raccolto di grano in una valle di gigli». E infine, il passo 8, 6, che nella traduzione approvata da Mancuso suona: «Poiché forte come Morte è Amore, inesorabile come gli Inferi è Passione; i suoi dardi sono dardi di fuoco, una fiamma divina!», in bocca a Latini suona: «Perché forte come l’amore è la morte, il desiderio brucia come l’inferno, e le fiamme sono schegge di fuoco».
In breve, la versione del testo proposta da Latini mi pare molto più banale e tendenziosa, a prescindere dal fatto che, per l’appunto, contraddice la «dolcezza», la «timidezza» e la «dimensione onirica» da lui tirate in ballo e, per quanto riguarda l’ultimo dei tre passi di cui sopra, cancella il decisivo riferimento biblico al Creatore.
Descrivo adesso, per sommi capi, l’allestimento in sé. Gli spettatori, entrando in sala, trovano Latini sdraiato come un barbone su una panchina, avvolto in uno spolverino stropicciato. Ma subito, appena inizia lo spettacolo, si trasforma – parrucca e occhiali neri, cuffie, labbra dipinte di rosso – in un conduttore androgino che manda in onda il testo dai microfoni di una radio, fra continue pause costituite da sonate pianistiche e improvvisi e reiterati clangori. E la sua recitazione, un esercizio virtuosistico che mescola vari stili ed effetti, potremmo definirla con la seguente formula: un po’ Carmelo Bene, un po’ Giorgio Albertazzi e un po’ Gigi Proietti che fa Carmelo Bene e Giorgio Albertazzi.
A tratti, poi, Latini si alza e si mette a ballare su musiche da discoteca, prima fra tutte quella del tormentone di Raffaella Carrà «A far l’amore comincia tu»; e infine s’abbandona a un parossismo che giunge sino ad imitare il coito con qualsiasi cosa lui si trovi davanti, il microfono, una pianta e, naturalmente, la console. Lo spettacolo termina, un attimo prima che si spengano le luci, con la parola «peccato». E non posso non farla mia: peccato per il «Cantico dei Cantici» e peccato anche per la bravura di Latini, in questo caso assolutamente sprecata.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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