La confessione dell’omosessualità a una tomba nella neve

Saverio La Ruina in un momento di «Masculu e fìammina» (le foto che illustrano l'articolo sono di Angelo Maggio)

Saverio La Ruina in un momento di «Masculu e fìammina»
(le foto che illustrano l’articolo sono di Angelo Maggio)

CASTROVILLARI – Avendo rivisto «Masculu e fìammina» nell’ambito della XVIII edizione della rassegna «Primavera dei Teatri», ripubblico la recensione che scrissi nel dicembre dell’anno scorso dopo aver visto la «prima» nazionale dello spettacolo al Piccolo Teatro Studio Melato.

Di due poesie mi son ricordato mentre assistevo a «Masculu e fìammina», lo spettacolo di Saverio La Ruina presentato da Scena Verticale: due poesie fra loro diversissime (parlo di «Consolazione» di D’Annunzio e di «Supplica a mia madre» di Pasolini) e che, tuttavia, proprio per questo finiscono a costituire, insieme, un ossimoro che rimanda direttamente al titolo di La Ruina e all’articolarsi dei temi più profondi del suo testo.
Infatti, in entrambe le poesie a cui mi riferisco c’è un figlio che parla con la madre: ma se nel caso di D’Annunzio e di Pasolini quella madre è viva, nel caso di La Ruina è morta, il figlio, Peppino, si rivolge alla sua tomba. E di qui lo scarto sostanziale e, pure, il punto di contatto tra i primi versi delle due poesie: «Non pianger più. Torna il diletto figlio / a la tua casa. È stanco di mentire» (D’Annunzio) ed «È difficile dire con parole di figlio / ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio» (Pasolini).
L’ossimoro, dunque, riguarda le parole. C’è bisogno di dirle per portare alla luce una verità troppo a lungo taciuta e, nello stesso tempo, se ne ha paura per la loro incapacità di comunicarla esattamente, quella verità. Il Peppino di La Ruina, che adesso confessa apertamente alla madre la propria omosessualità, dichiara di conseguenza che «su tutti sbagliati i paroli pi dici sta cosa». E sbotta: «Beatu u popolu c’un va apprìassu i paroli».
È appunto per questo, allora, che Peppino confessa la propria omosessualità alla madre solo dopo che è morta: perché ora lei non può sentire le parole inadeguate e, perciò, impotenti con le quali lui è costretto a fare quella confessione. E di qui, poi, la serrata strategia dilatoria messa in atto da questo figlio. Il quale, avvicinandosi al momento fatidico della confessione, si trincera, per ritardarlo, in tutta una serie di digressioni: vedi il racconto degl’incontri l’uno dopo l’altro, mentre sta dirigendosi verso il cimitero, con Pina (non a caso un transessuale) e con l’amica Lina.
Un testo bellissimo, questo di La Ruina. Tutto in stretto dialetto calabrese (più esattamente si tratta del dialetto della zona di confine fra la Calabria e la Basilicata), suona, dunque, un po’ misterioso per chi non è di quelle terre. Ma va bene così, perché, appunto, parliamo di un ossimoro. E ferrea e leggera ad un tempo è la coerenza interna che connota e sorregge «Masculu e fìammina». Senza parere, ad esempio, La Ruina fa dire a Peppino, quando Lina lo rimprovera di cambiare ricordo mentre ne sta esponendo un altro: «Ohi Lì, ji un cangiu propiu nenti, […] jè sempi u stessu ricordo, sulu ch’i ricordi miji cumincinu belli e finiscinu brutti, a cusì su, un ci pozzu fa nenti, su belli a mità».

Un altro momento dello spettacolo

Un altro momento dello spettacolo

E certo, trasuda dolore e smarrimento, «Masculu e fìammina». Ma è pure un testo indomito, che trova poi il coraggio di aprirsi – di nuovo un ossimoro – a parentesi di autoironia e persino d’irresistibile comicità. Vedi, per quanto riguarda quest’ultimo punto, la sequenza di Saro e Marietto, che vanno a battere indossando camicioni che li fanno assomigliare sputati ai Santi Cosma e Damiano. Un altro omosessuale, Vittorio, gli scatta una fotografia, ne stampa centinaia e centinaia di copie e le distribuisce in chiesa senza che alcuno s’accorga di niente. Peppino commenta: «E mi facìa mori stu fatto ca Saro e Marietto, ricchiuni froci e finucchi cumi i chiamavinu i paesani nùasti, divintavinu i protettori d’u paisu e d’i paesani nùasti stessi, i Santissimi Cosma e Damiano».
Per questa strada, si capisce, La Ruina arriva sino all’iperbole straniante. Accade, sempre per fare un esempio, quando Peppino, rimasto muto dopo che Alfredo, il grande amore della sua vita, è partito, riesce finalmente a sciogliere il groppo che ha in gola cacciando un grido altissimo nella cucina dell’albergo di Riccione in cui lavora. E tutti i clienti restano incantati «cumi quannu avìanu sintutu u gridu i Maria Callas mentre chi gridavi amami Alfredo». Con l’aggiunta, manco a dirlo, che quei tedeschi, inglesi e francesi in vacanza si lanciano in coro sull’equazione: «Peppinu come Giuseppe, Peppino come Verdi. Peppino e Giuseppe, lo stesso nome la stessa arte».
La storia finisce quando finisce l’amore: quando, cioè, Alfredo viene ucciso da una bestia omofoba mentre sta appartato in macchina con Peppino. E in fondo, è anche per lui la rosa rossa che quest’ultimo depone delicatamente, come una carezza, ai piedi della lapide della madre.
Inutile, adesso, sprecare parole sulla prova da antologia che Saverio La Ruina fornisce in quanto attore. Piuttosto, voglio dire che una terza poesia mi ha riportato alla mente la sequenza finale dello spettacolo, allorché Peppino – dopo uno slittamento (una sarcasticamente disperata speranza di rinascita?) nella dimensione onirica del San Pietro che attende i trapassati, e quindi pure la madre, per comunicare loro chi è ammesso e chi no in Paradiso – leva sommesso, dall’anima e dalla carne, l’epicedio della solitudine che gli cresce con l’età.
Parlo dell’«Autunno» di Cardarelli: «Ora passa e declina, / in quest’autunno che incede / con lentezza indicibile, / il miglior tempo della nostra vita / e lungamente ci dice addio». Intorno il manto bianco della neve, l’estremo ossimoro rispetto a questo Sud chiuso nel nero delle sue paure. Giacché qui c’è una doppia sepoltura: quella della tomba della madre di Peppino per l’appunto sotto la neve e quella dei sentimenti di Peppino sotto l’incomprensione degli altri. Perciò lui può concludere – l’ultimo slittamento di senso – chiedendo d’essere a sua volta sepolto sotto la neve, vicino alla madre, e aggiungendo, stavolta in perfetto italiano: «Svegliatemi in un mondo più gentile».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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